Sbagliato sottovalutare
la camorra sui social

di Isaia Sales
Martedì 12 Aprile 2016, 23:47
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Fa discutere la pagina Facebook intitolata “O’ sistema”, una piccola enciclopedia in immagini e parole dei “valori” criminali che ha trovato finora ben 23.000 persone tra Campania e Sicilia che ne condividono i contenuti. Non si sa ancora se si è di fronte a un gioco, ad un atteggiarsi da duri e puri di persone coperte dall’anonimato del web o addirittura ad un salto di qualità nella comunicazione camorristica.

Sicuramente non è una novità degli ultimi giorni l’uso del web come mezzo per la propaganda criminale. Nei mesi scorsi un giovane incensurato è stato ucciso nei pressi dell’aeroporto di Capodichino, e si è scoperto poi che sul profilo facebook aveva postato una sua foto con una pistola d’oro puntata alla testa, con sotto una frase di sfida “io me la sento e voi?”. Addirittura un pregiudicato napoletano ha mostrato sul web i fori che i proiettili dei nemici avevano fatto sul suo corpo, comunicando spavaldo al mondo la sua voglia di vendetta. I casi sono tanti ormai al punto che sono state già pubblicati dei saggi sull’uso del web da parte dei mafiosi, e nelle università si svolgono molte tesi sull’argomento.

Ciò che colpisce in questo ultimo episodio è che non si tratta del messaggio di un singolo ma di qualcosa di più organizzato, più meditato, più collettivo. Ripeto, non è una novità da parte di giovani camorristi il manifestare in pubblico i loro convincimenti criminali e il loro senso di appartenenza orgogliosa al mondo malavitoso, sono solo cambiati negli ultimi tempi gli strumenti e le forme. A partire dagli anni settanta del Novecento sono state le radio libere il principale vettore dei loro messaggi, in genere rivolti ai carcerati, costringendo le forze dell’ordine a chiuderne diverse; poi negli anni ottanta sono stati alcuni cantanti a veicolare attraverso le loro canzoni messaggi precisi conto i pentiti, ad esaltare i killer di camorra e addirittura a dedicare una canzone a «Il mio amico camorrista» (in cui lo si definisce «un uomo pieno di qualità, che fa bene alla brava gente e che per gli altri rischia con coraggio la vita e la libertà»).

Ma questi non sono solo fenomeni campani né tantomeno solo italiani. In Germania sono state vendute più di 150.000 cassette di canzoni che sono dei veri e propri inni alla ‘ndrangheta i cui titoli si commentano da soli: «Sangu chiama sangu»; «Omertà»; «Mafia leggi d’unuri». In un documentario su Sky («I segreti del pop») sono stati ricordati i rapporti che il boss mafioso italo americano Joe Adonis ebbe a Milano con alcuni famosi cantanti, che lo spinsero ad immaginare un festival della musica italiana alternativo a quello di Sanremo. Anche i video che inneggiano ai narcotrafficanti latino-americani sono impressionati, in essi si vedono vere e proprie esecuzioni, teste mozzate e altre atrocità accompagnate da orecchiabili canzoni sulle virtù dei criminali. Negli Usa negli ultimi anni sono stati uccisi alcuni dei più famosi rapper in scontri tra bande rivali, e le loro canzoni superano quelle dei nostri neomelodici nell’apologia di tutti i reati possibili e immaginabili.

Rappresentare quel mondo e cantarlo vuol dire esserne parte? E’ una questione delicata, soprattutto quando coloro che compongono e cantano quei testi sono dello stesso ceto sociale di chi li ascolta. Ma sicuramente tra le tre organizzazioni mafiose italiane la camorra napoletana è quella che più manifesta pubblicamente il proprio credo criminale e sembra dunque più a suo agio nell’attuale mondo dei social. E c’è una sostanziale continuità storica tra l’auto-esaltarsi sul web dei giovanissimi criminali di oggi e quelli che li hanno preceduti. La continuità sta nelle caratteristiche della camorra napoletana che non rappresenta una élite criminale come sono a loro modo i mafiosi siciliani e ‘ndranghetisti, ma una criminalità di massa dove non esiste una vera gerarchia né una ritualizzazione dei vari gradi che portano ai vertici dei clan.

Così è oggi, così era ieri con Cutolo. Il boss di Ottaviano intuì stando in carcere la carica esplosiva di un esercito di giovani violenti e sbandati delle periferie urbane, e li reclutò dando a ciascuno di essi un credo ideologico, dei soldi per pagarsi l’avvocato e per sostenere la famiglia, trasformando la loro iattanza, la loro improntitudine, il loro bisogno di guida e di autorità paterna, in un esercito di più di 5000 associati pronti a tutto pur di coprire con la violenza «un vuoto abissale, un quotidiano fatto di niente». Cutolo scrisse addirittura un libro «Pensieri e parole» che circolò nelle carceri come una bibbia criminale fungendo da veloce indottrinamento delinquenziale che portò addirittura ad usare la rivendicazione ai giornali degli omicidi commessi, con minacce agli avversari tramite volantini e manifesti, e dando vita a una originale forma di mutualità criminale, copiando dal terrorismo rosso e nero che dominava in Italia in quegli anni. Cutolo aveva tra l’altro scritto: «Sono a modo mio contro la società. Il camorrista è uno che ha subito sofferenze prima di delinquere».

Hanno ragione, dunque, tutti coloro che segnalano alcuni punti di contatto tra le radici sociali del terrorismo islamico e dei giovanissimi criminali napoletani. Essi provengono dai disastri delle periferie di alcune delle grandi città europee (e Napoli è tra queste) e vanno alla ricerca di un elemento catalizzatore della loro collera sociale. La religione è solo uno di questi possibili coaguli, che fuori dal mondo islamico può essere rappresentato da altro. Nelle retrovie sociali si stanno accumulando giacimenti di violenza che prima o poi troveranno sbocco.

Ma l’attenzione a tutto ciò non fa parte delle comuni preoccupazioni politiche e amministrative, perché abbiamo smarrito il valore da attribuire al tessuto sociale delle città.
Se si lacera il tessuto connettivo della società, se non viene attentamente ricucito e curato, si produce un danno che è come una bomba ad orologeria: esploderà prima o poi, e non sappiamo i danni che sarà in grado di fare. Investire sulla tenuta sociale è importante almeno quanto in vestire sul patrimonio artistico. Per cui non sottovalutiamo quello che il web ci continuerà a dire, al di là di ciò che oggi scrivono quelli de O’ sistema. Ed è già una fortuna che per ora si limitano a postare bombe e proiettili su internet.
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