Un atroce passo indietro
contro chi collabora

di Isaia Sales
Lunedì 18 Settembre 2017, 22:20
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Negli ultimi anni erano stati rari gli omicidi contro pentiti (usciti di galera) o contro loro parenti. Perché era calato il numero di collaboratori di giustizia nella camorra clan rispetto agli anni in cui si erano contati a migliaia (ben 1253, la maggior parte tra appartenenti ai clan). E poi perché era cambiata la strategia per impedire ai pentiti di rivelare ulteriori episodi in grado di smantellare l’organizzazione di cui avevano fatto parte.

Mentre prima si ammazzavano tutti quelli che erano legati ai pentiti o in qualche modo erano riconducibili al loro ceppo familiare, senza nessun riguardo ai gradi di parentela, all’età e al sesso, negli ultimi tempi invece si cercava un contatto con la loro famiglia per indurli con altri mezzi a interrompere la collaborazione con la giustizia e per ritrattare quello già dichiarato; in cambio si garantiva una cifra alta per farli tornare indietro, si assicurava la copertura per le spese di difesa e un’assistenza economica mensile per i familiari: insomma, si cercava di persuadere i pentiti attraverso il pieno coinvolgimento economico della loro famiglia piuttosto che sterminarla, si utilizzavano più i soldi che la pistola, il potere della convenienza piuttosto che quello della paura. Un cambio di strategia dovuto all’evidenza che il gran numero di assassini tra i parenti non aveva arrestato il fenomeno.

E le modalità con cui erano stati compiuti alcuni omicidi avevano colpito ed emozionato fortemente la pubblica opinione. Il caso più clamoroso era stato quello di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, di colui cioè che aveva rivelato notizie decisive sull’attentato a Giovanni Falcone a Capaci. Il ragazzino fu rapito all’età di 11 anni nel 1993 nel maneggio dove teneva il suo cavallo, e venne ucciso l’11 gennaio 1996, a 14 anni, dopo essere stato torturato e strangolato; il suo corpo venne sciolto nell’acido. A Tommaso Buscetta avevano ammazzato undici parenti, tra cui due figli, il marito della figlia, un fratello, il figlio di un fratello, un cognato.

A Francesco Marino Mannoia (colui che raffinava per conto di cosa nostra l’eroina nei laboratori impiantati in Sicilia) avevano ammazzato la madre, la sorella e la zia. A Luigi Giuliano, l’ex boss di Forcella, avevano assassinato, dopo il suo pentimento, il fratello Nunzio e il figlio Giovanni. Ma in nessuno di questi casi la spietatezza degli assassini aveva spinto i pentiti a interrompere la collaborazione. L’intuizione di Giovanni Falcone di un regime premiale per chi collaborava con lo Stato era stata devastante per le mafie, scalfendo l’obbligo del silenzio e incrinando l’impunità storica di cui avevano goduto fino ad allora. Il cambio di strategia verso i pentiti aveva riguardato tutte e quattro le organizzazioni mafiose, anche se non c’era stata nessuna intesa specifica tra i loro vertici.

L’evidenza si era imposta: la politica di Totò Riina verso i pentiti (“sterminare tutti i familiari fino al ventesimo grado di parentela, compresi i bambini”) non aveva prodotto nessun risultato; essi continuavano ad aumentare, lo sterminio delle loro famiglie produceva solo un ulteriore motivazione a distruggere l’organizzazione. Il cambio si era prodotto anche nei comportamenti dei clan di camorra. Maria Licciardi, in quel periodo ai vertici dell’Alleanza di Seondigliano, aveva proposto una cifra cospicua alla famiglia di Costantino Sarno in cambio della ritrattazione delle accuse che coinvolgevano lei e la sua famiglia: venne fermata nel 1998 mentre consegnava una prima tranche di 300 milioni.

Se lo sterminio non aveva prodotto risultati apprezzabili, la trattativa con i familiari dei pentiti sembrava funzionare: meglio i soldi che le pallottole. In quali circostanze, invece, si continuava a colpire i pentiti nei legami di sangue? Solo quando i processi scaturiti dalle loro rivelazioni si erano definitivamente conclusi con dure condanne; in quel caso l’omicidio non avrebbe potuto più causare ulteriori danni, e la vendetta poteva consumarsi senza limiti. Come dimostra il caso di Davide Montefusco, ucciso nel 2016 perché parente di un collaboratore di giustizia che aveva fatto condannare definitivamente i responsabili della strage davanti al bar Sayonara di Ponticelli avvenuta nel 1989 (sei morti e due feriti), dopo aver incendiato la casa della madre.

Come valutare allora l’uccisione di ieri del ventunenne Nicola Notturno, figlio di un boss dei cosiddetti “scissionisti” di Scampia ( l’insieme dei narco-camorristi che si erano opposti alle modalità di comando imposte al clan da Cosimo Di Lauro dopo l’arresto del padre Paolo)? Lo si può considerare un nuovo episodio della vecchia faida (costata centinaia di vittime tra il 2003 e il 2012) o si tratta di uno specifico avvertimento rivolto allo zio del ragazzo, Gennaro Notturno, che solo poche settimane fa si è pentito consentendo agli inquirenti di ricostruire le responsabilità dei numerosi omicidi perpetrati durante quel periodo?

Il clan Di Lauro e quello degli scissionisti non sono certo gli ultimi arrivati nei ranghi della camorra, e quindi si deve pensare a qualcosa di più motivato rispetto alla emotiva e sanguinaria reazione alle dichiarazioni di un pentito.
I figli di Di Lauro debbono dimostrare che sono ancora attivi e potenti, e le dichiarazioni dello zio del giovane assassinato stavano coinvolgendo anche alcuni membri degli scissionisti che finora non avevano accuse di specifici omicidi ma solo di traffico di droga. In definitiva, o siamo di fronte a un nuovo cambio di strategia verso i pentiti o si tratta dell’ennesima dimostrazione di una camorra senza strategia guidata solo dall’ansia di accumulare soldi e cadaveri. 
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