In Spagna ha vinto l'«usato sicuro»
dopo la Brexit un governo popolare

In Spagna ha vinto l'«usato sicuro» dopo la Brexit un governo popolare
di Francesco Lo Dico
Mercoledì 29 Giugno 2016, 17:04 - Ultimo agg. 18:41
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Di fronte ai marosi della Brexit, la Spagna si è aggrappata alle vecchie sicurezze e ha bocciato le ambizioni di governo di Podemos, in una tornata elettorale che sancisce la nascita di un sistema tripolare anche in Spagna e che tuttavia consegna buone notizie all’Europa. È questa in sintesi l’analisi del voto di Alfonso Botti, docente di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia, e autorevole ispanista che ha all’attivo decine di saggi storici dedicati alla Penisola Iberica.

Professore, il quadro che emerge dal voto spagnolo dopo lo strappo inglese sembra a prima vista la fotocopia di quello di sei mesi fa. Ma in realtà Podemos ha perso un milione di voti, e rispetto alle attese della vigilia non ha sfondato a sinistra. Che idea si è fatto di queste elezioni?

«L’idea è che la Brexit abbia influito sull’orientamento degli elettori. Di fronte alle incertezze maturate in Europa sull’onda del referendum inglese, gli spagnoli hanno inteso confermare gli assetti politici tradizionali che vedono riconfermate come prime due forze del Paese popolari e socialisti. Il risultato positivo raccolto da Rajoy, è spiegabile anche con il travaso di voti da Ciudadanos al Pp, che si è ripreso quei consensi in libera uscita finiti a dicembre ai centristi di Rivera. Una tendenza, quella dell’«usato sicuro» che spiega in parte anche la flessione di Podemos».

Il partito di Iglesias, contrariamente a quanto indicato dai sondaggi, vede sfumare il sorpasso dei socialisti a sinistra. Perché lo sfondamento alla fine non c’è stato? Il tentativo di assumere posizioni più moderate non ha pagato?

«Gli spagnoli vedono ancora in Podemos un’incognita a livello governativo. Non credo però che la cosiddetta svolta social-democratica abbia influito nel calo dei consensi. Se si esamina il voto, emerge che il partito di Iglesias ha dato vita a buone performance in realtà dove esprime i sindaci come Barcellona e Valencia. A pesare molto è anche l’orientamento fluttuante di Iglesias sul referendum per l’indipendenza catalana. Quando apre al referendum guadagna voti in Catalogna e nei Paesi baschi e li perde nel resto del paese e viceversa. Di qui il suo procedere in modo abbastanza ondivago su questo problema.

Quanto ha contato la paura di lasciare spazio a forze antisistema nel delineare i nuovi equilibri disegnati dal voto avvenuto poco dopo la Brexit?

«In realtà le quattro le forze politiche che si sono contese il primato in questa tornata elettorale esprimono tutte la stessa intensità europeista. A differenza che in Gran Bretagna, in Spagna le spinte euroscettiche e le proposte politiche di matrice xenofoba non hanno mai attecchito. Un po’ di disaffezione verso le istituzioni europee è naturalmente presente anche nel paese iberico, specie tra i giovani. Ma nel complesso, dal voto emergono buone notizie per gli equilibri dell’Unione».

Come accaduto in Italia, e in parte in Francia, viene fuori tuttavia un dato certo. In Spagna il bipolarismo tradizionale ha ceduto il passo a un sistema a tre poli. È la protesta giovanile contro l’Europa ad aver innescato il cortocircuito?

«Anche il voto spagnolo ripropone indubbiamente il tema dello stacco generazionale che in Gran Bretagna ha portato i giovani a votare per la permanenza in Europa. La disoccupazione giovanile ha raggiunto in Spagna il 46 per cento: potenziali lavoratori istruiti e qualificati che non hanno la possibilità di mettere a frutto i loro sacrifici. Ma come detto poc’anzi, la protesta non si spinge fino al punto di ipotizzare una rottura con Bruxelles. La domanda giovanile inevasa fluisce nella scelta di Podemos e Ciudadanos, che pur caratterizzati da toni critici e anti-casta restano anch’essi partiti europeisti. Ma l’onda giovanile ha senz’altro alterato quel bipartitismo imperfetto (per il ruolo dei partiti nazionalisti che spesso sono stati necessari a formare le maggioranze) che si impose in Spagna nel 1978 per durare fino a dicembre scorso, quando raggiunse il punto più alto della sua crisi».

Al netto del veto dei socialisti, quali soluzioni si profilano all’orizzonte per consentire a Rajoy di formare il nuovo governo sulla base di una maggioranza certa?

«Al momento sono due le ipotesi di lavoro: o un patto di legislatura tra popolari e socialisti, che comporterebbe non poche incognite per via di posizioni divergenti su austerity e riforma della Costituzione, e lascerebbe scoperto il fianco a sinistra dei socialisti a favore di Podemos, oppure un governo popolare di minoranza».

Un governo di minoranza?

«Secondo quanto previsto dalla Costituzione spagnola, il premier potrebbe governare pur non potendo contare sui 176 seggi che assicurano la maggioranza, grazie all’astensione dei socialisti. Più remota resta invece l’idea di un governo tecnico affidato a una personalità super-partes scelta al di fuori della politica. In Spagna sarebbe la prima volta».

 
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