Venezuela, gli eroi che restano

«Non uccideteci! Vogliamo votare» Una delle tante immagini delle proteste furibonde scoppiate oramai più di due mesi fa.
«Non uccideteci! Vogliamo votare» Una delle tante immagini delle proteste furibonde scoppiate oramai più di due mesi fa.
di Luca Marfé
Giovedì 8 Giugno 2017, 22:10
5 Minuti di Lettura
CARACAS - Ancora un morto, ancora un ragazzino: è la volta di un 17enne, Neomar Lander. Stando a quanto riportato da fonti governative, sarebbe rimasto vittima di un arma artigianale che stava maneggiando. Ma la versione del ministro della Giustizia non convince e l'opposizione tuona contro le maniere brutali delle forze dell'ordine.

È il caos. E non si vede via d'uscita.



I venezuelani scappano, si rifugiano ovunque purché sia altrove. Lontani dalle loro case, dagli affetti di sempre, dalle meraviglie di un Paese che ha incantato generazioni e volti provenienti da ogni angolo del mondo in tanti tempi diversi.

Eppure c’è chi spera ancora, eppure ci sono gli eroi che restano.

Eroi perché convivere ogni giorno con livelli di criminalità inimmaginabili per un occidentale, con una scarsezza di beni oramai tale da impedire anche gli aspetti più banali della quotidianità e con un governo che altro non fa che mostrare i muscoli e reprimere qualsiasi forma di dissidenza, be’, è semplicemente e per l’appunto cosa da eroi.



Una delle tante voci martoriate ma scalpitanti di uno scenario oramai in frantumi è quella di Marco Lepore, imprenditore cinquantenne preoccupato per il futuro di sua moglie Maria Alejandra e, soprattutto, per quello dei suoi due figli, Santiago, 12 anni, e Matteo, 4 anni.



Marco si occupa di marketing e comunicazione, fa l’attore a tempo perso ed è un volto molto popolare in città e sulle reti sociali. E, «prima di ogni altra cosa» (ci tiene lui stesso a sottolinearlo) è uno dei 150mila italiani registrati all’AIRE che vengono stimati in realtà in una cifra assai vicina al milione.

«Siamo al 69esimo giorno di proteste ed il nostro bollettino di guerra, è proprio il caso di scriverlo perché di guerra si tratta, ha superato quota 80 vittime. Più di un morto al giorno a fronte di poco più due mesi. Quasi 1500 persone detenute non si sa bene per cosa. E di tutto questo non si intravede alcuna fine».

Le immagini che, finalmente, stanno facendo il giro del mondo parlano chiaro: militari ovunque, manifestazioni proibite o comunque osteggiate. E poi le bombe lacrimogene, gli idranti, talvolta le armi, i proiettili veri.

Il clima è folle e sono soprattutto i giovani a schierarsi in prima linea contro quello che non esitano a definire il “regime Maduro”.

Li chiamano “los escuderos”, sono gli artigiani della resistenza. Hanno il volto coperto, indossano caschi e si trascinano dietro veri e propri scudi realizzati alla meno peggio. Si infilano pezzi di stracci nelle narici per turarsi il naso e nel migliore dei casi indossano maschere antigas. Sono insomma i nuovi simboli di un Venezuela che vorrebbe essere un’altra cosa, che grida a gran voce dignità.

Marco riprende il suo discorso e spiega che la MUD, la Mesa de la Unidad Democrática, il partito che raggruppa tutte le forze di opposizione, ogni sera fornisce attraverso i propri portavoce delle indicazioni precise sul da farsi per il giorno dopo.

«A prescindere da ciò che resta dei miei impegni, non salto mai le proteste né le piccole assemblee che stanno cercando disperatamente di liberare una ventata di politica nuova fin nei quartieri più poveri. Stiamo cercando di risvegliare la gente dal lungo sonno di assistenzialismo imposto da Chávez prima e da Maduro poi».

I quartieri poveri di cui parla non sono cosa semplice da riportare nell’ambito di un immaginario europeo. Eppure anche lì qualcosa sta cambiando: «Moltissimi minorenni, poco più che bambini, vivono in strada, non hanno nulla da mangiare e, proprio perché oramai non hanno neanche più niente da perdere, se ne fregano di sfidare la morte e si aggregano alle proteste».

Lui come tanti altri ha rischiato la vita in questo vortice furibondo. Ci sono delle foto che lo ritraggono dopo una fuga che ha visto lui e molti dei suoi concittadini costretti a tuffarsi nelle acque (contaminate, peraltro) del fiume Guaire per sfuggire alla furia repressiva dei militari.



«Ho visto più di un ragazzo morto, decine e decine di feriti. Alcuni di loro li ho caricati sul mio scooter per trascinarli nell’ospedale più vicino. Eravamo persone normali, con vite normali. Sta di fatto che non lo siamo più. Ma torneremo, ne verremo fuori e lo faremo attraverso la via democratica. Ci vuole calma, prudenza: due virtù necessarie per evitare un bagno di sangue addirittura peggiore».

Marco e molti altri scommettono una grossa fetta del loro futuro puntando proprio sui militari, vero ago della bilancia alla latitudini latinoamericane.

«C’è grande malcontento anche e soprattutto tra di loro. In particolare le fasce medio-basse dell’esercito vivono di stenti come il resto della popolazione. La solidarietà, per non chiamarla vera e propria disperazione, potrebbe essere il collante per un Paese nuovo, non più diviso, chiamato necessariamente a rinascere. Io ci credo».

Resta poi la speranza della manna dal cielo potenzialmente rappresentata da un intervento internazionale o comunque esterno. Ma l’ideologia quaggiù è troppo densa ed è evidente il timore di mettere le mani in un calderone già di per sé esplosivo.



Scuote il capo, gli piacerebbe, ma non è convinto nemmeno un po’: «È altamente improbabile, gli interessi della Comunità Internazionale sono addirittura opposti. Basta dare un’occhiata alla liquidità che Goldman Sachs ha versato nelle casse di Maduro e dei suoi: 865 milioni di dollari per l’acquisto di titoli scontati (del 70%) che serviranno a finanziare ulteriore propaganda e soprattutto armi ed equipaggiamenti da impiegare contro persone perbene come me. Una follia, davvero incommentabile».

Insomma, intervento sì, ma paradossalmente a sostegno e non a dispetto del governo.

Ancora una battuta sul futuro, in particolare sul suo ruolo di padre: «Sto rischiando la vita perché penso che non dobbiamo mollare. Non si può regalare un Paese a chi continua a maltrattarlo in questo modo. Guardo alla mia famiglia e mi sento un po’ come il protagonista del film “La Vita è Bella”. Cerco nel mio piccolissimo di fare in modo che Santiago e Matteo non perdano il sorriso, la voglia di sperare. E di vivere qui, in Venezuela, senza dover scappare altrove».
© RIPRODUZIONE RISERVATA