Non ci sarà alcuna candidatura italiana sul caffè all'Unesco. È questa la decisione assunta ieri dalla commissione valutativa presieduta da Franco Bernabè in rappresentanza del ministero degli Esteri. In presenza di due proposte, una sull'espresso italiano e una sulla tradizione napoletana, si è salomonicamente deciso di rinviare di un anno ogni iniziativa sul tema tazzine e cialde invitando le due parti a mettersi d'accordo in modo tale che il nostro Paese possa avanzare una sola candidatura sul tema. Una soluzione all'italiana insomma, non solo perché ineccepibile dal punto di vista burocratico anche se contraria a ogni logica storica, ma perché frutto di quel particolare gioco di interdizione, tipico, appunto, delle squadre che praticavano il catenaccio all'italiana in cui lo scopo non era giocare meglio dell'avversario ma impedirgli di giocare.
Già, perché, alla fine, la doppia candidatura non è stata altro che una mossa delle grandi, ricchissime e potenti, torrefazioni del Nord per impedire che passasse la proposta, formalizzata nel dicembre 2019, di conferire il riconoscimento Unesco come patrimonio immateriale all'Arte del Caffè Napoletano.
Il punto è che l'Unesco non sostiene prodotti, ma patrimoni culturali. Non la pizza, per tornare a noi, bensì all'arte del pizzaiolo. Ed è dunque impossibile pensare che avrebbe dato semaforo verde ad una proposta avanzata dai produttori di caffè italiani del Nord, ricchi di soldi ma che dal punto di vista storico hanno potuto esibire solo i loro macchinari e poco più. Di contro la proposta napoletana era stata presentata da un ente pubblico, la Regione Campania, e sostenuta da un lavoro scientifico interdisciplinare di più università coordinato dal professore Marino Niola con uno studio che attesta quello che tutti sanno: che il caffè, come la pizza, è parte integrante della comunità napoletana. «La cosa incredibile - dice il consigliere regionale Francesco Borrelli che presiede l'Osservatorio dei riconoscimenti Unesco in Campania, la regione piche ne può vantare di più di ogni altra al Mondo è che si è ripetuta la storia della pizza. Prima una campagna denigratoria, poi la tesi che il caffè napoletano è solo una declinazione regionale della tradizione italiana, ossia l'esatto contrario della realtà. Ma ho l'impressione che stavolta siano entrati in campo interessi colossali per impedire che la cosa andasse in porto». Anche il professor Niola ha un giudizio duro: «La decisione della commissione è cieca oltre che poco trasparente. Scriva proprio così: poco trasparente».
Insomma, stavolta il catenaccio italiano ha funzionato: il risultato finale è zero a zero, esattamente quello a cui puntava l'industria della torrefazione del Nord, impedire che Napoli potesse ottenere un altro riconoscimento storicamente accertato. Alla fine nessun ministero ha sostenuto la causa napoletana, neanche quello alla Transizione Ecologica come si chiama oggi di Roberto Cingolani, ex componente del Consiglio di amministrazione della Illy Caffè. E l'unico ministero presieduto da un meridionale, quello degli Esteri, con Luigi Di Maio, alla fine ha presentato le due candidature: il Tocati e l'allevamento del cavallo Lipizzano. La prima se non vi dice nulla non vi spaventate, potete colmare la grave lacuna su Google. Del secondo vi diremo che farà sicuramente contento il ministro Patuanelli che l'aveva avanzata dal suo ministero perché si tratta di un cavallo asburgico selezionato a Lipizza, vicino alla sua Trieste. Il neo ministro mette dunque a segno un doppio colpo: impedire che il caffè sia legato a Napoli come la pizza e mettere una bella bandierina campanilistica come nuovo atto del suo ministero. Una bandierina a Cinque Stelle.