Amarcord bianconero

Amarcord bianconero
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Proust – giocatore lentissimo, e molto pigro – col calcio non funziona benissimo, il campo può essere Madeleine solo se genera il racconto del non visto, se diventa cinema del dettaglio, se si radicalizzano i ricordi, per questo “Amarcord bianconero” (Einaudi) di Ernesto Ferrero, è un libro a metà. Un memoir che si accende quando lo scrittore non si lascia sovrascrivere o si perde in racconti d’altri (Pasolini, Soldati, Brera, Arpino, Soriano, etc), quando lavora sulle espressioni che annodano la sua tavola alla tribuna e alle curve o sui legami di Torino col calcio (sponda granata compresa, e conseguente tragedia), e che si perde quando Ferrero si mette a strologare sul tifo – senza mai diventare Tim Parks – che non è più elegante, sui calciatori che sono antropologicamente diversi, che poi da anglofono dovrebbe sapere quello che succede in Premier League e usare la meraviglia per altro. Fornire il racconto di più figure come quella della signora grassa in pelliccia che incitava carnalmente Ezio Loik, o più Renato Cesarini e meno Agnelli e conseguenti prediche socio-moralistiche.
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Il Mattino