La pizza di Cracco, i nomi delle cose e il "fuoco amico" di Gino Sorbillo

La pizza di Cracco
This is a pen, this is a pencil. E la matita non è una libera interpretazione della penna, una matita è una matita. La pizza è la pizza, la focaccia e la...

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This is a pen, this is a pencil. E la matita non è una libera interpretazione della penna, una matita è una matita. La pizza è la pizza, la focaccia e la fresella sono altre cose. Anche il pane lo è.

Spesso il popolo nel suo essere istintivamente ingenuo ha più ragione di gastrofighetti frequentatori dei salotti gastronomici sponsorizzati: quando è apparsa la foto della pizza di Cracco tutti hanno detto: ma questa non è una pizza. Il Re è nudo.
La replica, il fuoco amico come lo ha definito Antonio Pace oggi sul Mattino, viene a sorpresa da Gino Sorbillo, si lo stesso che protestava in piazza perché era stata assegnata a Padoan la migliore pizzeria dalla prima guida del Gambero Rosso: non è napoletana, è buona, ed è una libera interpretazione di Cracco.
Il punto politico della vicenda non è se la focaccia di Cracco sia buona o meno. Il punto è che si usa un nome non appropriato per un cibo. Come se chiamassi fico una pera, spaghetto un vermicello,tortellino un plin.
I nomi delle cose sono importanti. Sono l'inizio dell'apprendimento dei bambini, sono l'identità di una comunità. La pizza è pizza, non può essere definito con questo termine qualcosa di completamente diverso in nome della libertà. Perché in questo caso la libertà è semplicemente ignoranza delle cose.
Poi può anche essere più buona, e non lo è, di quella classica, ma non è di questo che si discute.
Difendere i nomi delle cose è importante, lo sanno bene le minoranze etniche che pretendono il bilinguisimo e lo sanno bene, più di tutti i francesi che su questo sono tignosi sino all'antipatia.
Noi a Napoli invece siamo così, perché si ragiona: in fondo a me che cosa importa?

Ecco, a te non importa nulla, ma per la cultura gastronomica di un popolo che ha inventato il cibo più famoso del mondo è pura subalternità. Fossi in Gino Sorbillo, invece di godere della ribalta mediatica che abilmente si è guadagnato smarcandosi dal suo popolo, rileggerei le centinaia di commenti sotto i suoi post dei suoi clienti, della gente che gli vuole bene. E la prossima volta non venderei la primogenitura per un piatto di lenticchie come Esaù, pardon, qualche comparsata in più in televesione. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino