Se hanno trasformato la loro terra in un'enorme pattumiera sotterranea, se hanno consentito che i veleni finissero sotto i piedi dei loro stessi figli e che, ancora, la loro...
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I VELENI
Fu proprio D'Ambrosio, manovale di una ditta edile, a fornire le prime indicazioni sulla presunta esistenza del cimitero dei veleni. «Vennero sul sito Walter Schiavone e Nicola Pezzella: imbracciavano delle mitragliatrici. Walter fece posizionare i bidoni e si assicurò che venissero coperti con la terra da noi operai». D'Ambrosio, nome di battagli «uccellino», era persone di cui gli Schiavone si fidavano. Manovrava l'escavatore e aveva vent'anni nei primi anni Novanta quando, sempre secondo i pentiti, sotto i terreni del Casalese furono sotterrati i fusti di mercurio provenienti dal nord Italia. Fusti che neanche gli scavi hanno però mai portato alla luce. Eppure la monnezza, diceva il pentito Carmine Schiavone, è oro. E i Casalesi, secondo la Dda, procedimento iniziato con il pm Giovanni Conzo e ora in capo ai sostituti Vincenzo Ranieri e Giacomo Urbano, pur di fare la parte di «re Mida» avrebbero aperto le porte dell'Ago Aversano, quello stesso territorio da cui avevano bandito la droga, a sepolture di veleni. Nel 2014, a caccia di prove, la Dda ordinò scavi massicci che portarono alla luce iniziarono gli scavi che stabilirono che lì sotto le migliaia di case abusive e nei terreni sconfinati che circondano Casal di Principe, Casapesen 150mila metri cubi di spazzatura. Dei fusti, come detto, neanche l'ombra, ma i terreni furono esaminati e le concentrazioni di stagno, berillio e idrocarburi pesanti risultarono molto alte. Tanto da mettere a rischio la falda acquifera. Allarmanti furono infatti i risultati delle analisi eseguite nei pozzi di via Vaticale, via Brindisi, corso Umberto, via Cavour e lungo la Circumvallazione.
RISCHIO PRESCRIZIONE
I quattro imputati rispondono in concorso di adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari, reato che si contesta a chi corrompe o adultera acque o sostanze destinate all'alimentazione prima che siano attinte o distribuite per il consumo rendendole pericolose alla salute pubblica. Il reato in questione è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Ed è contestato con l'aggravante dell'articolo 7 della legge antimafia. Particolare, quest'ultimo, di fondamentale importanza per la sopravvivenza stessa del processo dal momento che in assenza del profilo mafioso, l'impianto accusatorio cadrebbe in prescrizione. Proprio per questa ragione, ad aprile, i primi a sfilare dinanzi ai giudici del collegio C della prima sezione penale del tribinale di Santa Maria Capua Vetere saranno i collaboratori di giustizia. Al processo è costituito parte civile il Comune di Casal di Principe, rappresentato dall'avvocato Giovanni Zara. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino