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Spalle al muro, costretti alla resa, al termine di una stagione investigativa irripetibile. Quella delle inchieste della Dda di Napoli contro i clan casalesi, all'epoca protagonisti di un piano eversivo di stampo mafioso, con un attacco frontale allo Stato. Ricordate dieci anni fa? Arresti, sequestri, blitz e processi, la cattura dei latitanti della cupola mafiosa delle cosche casertane, un indiscutibile successo della Procura di Napoli. Che ha ottenuto anche la collaborazione di soggetti che hanno fatto la storia della camorra campana, con la resa dei figli della gomorra casalese. Ma cosa è rimasto di quella stagione? Proviamo a fare chiarezza, a rimanere alla storia di processi che sono stati condotti (e solo in parte conclusi) sull'onda d'urto della decisione di alcuni capi storici (o cognomi altisonanti) di passare a collaborare con la giustizia. Partiamo dal terremoto Antonio Iovine. Ricordate? Primavera estate del 2014, quando dopo tre anni al 41 bis (frutto del lavoro investigativo condotto dal pool anticasalesi dell'allora procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho), l'ex primula rossa Antonio Iovine decise di collaborare con la giustizia. Un terremoto, dicevamo. La svolta, secondo il mainstream, la fine di una stagione mafiosa, l'inizio di una svolta epocale. Sette anni dopo, però, il bilancio della collaborazione di Antonio Iovine è stato tutt'altro che roseo, al punto tale che alcune inchieste eccellenti contro politici e gruppi imprenditoriali (tra cui il colosso energetico della Cpl concordia) sono finite in una sorta di nulla di fatto. Tanto rumore, in alcuni casi arresti eccellenti, shock collettivo, grandi battage mediatici. E poi? Processi, materia decisamente controversa, poi assoluzioni. Giurisizione, nient'altro che dialettica giudiziaria, nulla più.
Ma anche uno sbocco che sa di irrisolto, alla luce del peso che era stato attribuito alla collaborazione di un pezzo da novanta della camorra campana come Iovine, il ninno fondatore della cupola dei casalesi, per altro reduce da almeno 14 anni di latitanza. Cosa è successo? Impossibile tracciare un bilancio definitivo, anche alla luce di quanto potrebbe venire fuori da inchieste che vedono tuttora impegnati pm di spessore della sezione della Dda che si occupa di contrastare le ramificazioni mafiose nell'area casertana. Impossibile anche alla luce delle verifiche che sono in corso su un altro versante investigativo - ovviamente strettamente collegate alle decine di spunti messi in campo da Antonio Iovine - su cui, è doveroso pensarlo, sono ancora in corso accertamenti di polizia giudiziaria. Fatto sta che appena tre anni fa - parliamo del 2018 - c'è stata una seconda scossa di terremoto, che sollevò l'attenzione degli organi di stampa nazionale: parliamo della decisione di collaborare con la giustizia da parte di Nicola Schiavone, il primogenito di Francesco Sandokan. Poche le dichiarazioni circolate fino a questo momento, anche se il livello sembra essere decisamente di alto profilo. Schiavone jr ha infatti puntato l'indice contro un imprenditore del Casertano, ritenuto cassaforte di Sandokan, una sorta di prestanome occulto, che avrebbe avuto la forza di diversificare i canali di investimento del denaro sporco che, ormai quaranta anni fa, avrebbe ricevuto da un giovane Francesco Schiavone.
Il Mattino