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Le carceri campane non sono sicure per i detenuti che hanno denunciato gli autori dei pestaggi nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. La metà dei poliziotti-picchiatori non è stata identificata ed è tutt’ora in servizio a Caserta, Poggiorale, Secondigliano e chissà dove altro. È questa la ragione dei trasferimenti delle ultime settimane a istituti lontani centinaia di chilometri, non solo dalla casa circondariale teatro delle violenze, ma anche da altri istituti campani in cui furono allocati subito dopo le denunce. Il pericolo, ormai è chiaro, non sono più quei poliziotti riconosciuti, arrestati, interdetti, ma coloro che quel giorno presero parte alle violenze, ma non sono stati identificati perché indossavano il casco o perché soggetti «ignoti» in quanto in congedo o addirittura in servizio in altri istituti. Quel pomeriggio molti agenti entrarono in carcere senza strisciare il badge: fu una sorta di liberi tutti. E, dunque, mentre il lavoro d’indagine continua anche per dare un nome ai picchiatori ignoti, sono già 49 i reclusi trasferiti per motivi di sicurezza fuori regione.
Ne hanno discusso ieri il garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, insieme agli omologhi di Napoli e Caserta, Pietro Ioia ed Emanuela Belcuore, con il capo della Procura che ha la paternità della delicata inchiesta, Maria Antonietta Troncone. Secondo la nota divulgata dai garanti, il procuratore ha spiegato che «il trasferimento è stato chiesto per coloro che hanno reso dichiarazioni, sia per tutelarli, sia per rendere più serena la loro permanenza in carcere, poiché sono coinvolti agenti di polizia penitenziaria operanti in diversi istituti penitenziari, oltre a quelli di Santa Maria».
Secondo i garanti, la decisione del Dap di spostare i detenuti che hanno puntato il dito contro i poliziotti violenti a San Gimignano, Firenze, Vibo Valentia, Palmi, Civitavecchia, Rieti, Spoleto, Perugia, Prato, Sollicciano, Palermo, a Modena «è una ritorsione piuttosto che una misura protezione». Secondo Ciambriello, la soluzione potrebbe essere quella di «riunire i reclusi in un unico istituto in prossimità della Campania in modo da garantire la territorialità della pena e agevolare avvocati e familiari nei loro spostamenti». Ed è questa la richiesta che i garanti inoltreranno formalmente il prossimo 3 agosto al capo del Dap, Bernardo Petralia, che ieri ha comunicato la fissazione dell’incontro attraverso la sua segreteria.
Quei detenuti che ebbero il coraggio di denunciare i poliziotti aguzzini e di riconoscerli formalmente, nelle carceri campane sono dunque ancora in pericolo. Non più alla mercé di chi li ha presi a schiaffi, calci e manganellate il 6 aprile del 2020 a Santa Maria Capua Vetere ed è stato riconosciuto, ma da chi quel giorno prese parte alla rappresaglia, ma è tutt’ora in servizio perché mai identificato.
Lamine Hakine morì in una di quelle celle di isolamento in seguito alle botte e all’assunzione di oppiacei. Per la Procura fu morte a seguito dei pestaggi e delle torture, ma il gip ha respinto tale ipotesi considerando il decesso dell’algerino un suicidio. La questione è però ancora aperta: il pm ha appellato il rigetto dinanzi al tribunale del Riesame.
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Il Mattino