Come i passeggiatori di buona lena, Silvio Perrella è pure un conversatore sereno, sempre ben disposto, che alla cadenza del passo, il più delle volte portato in...
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Il Perrella di Insperati incontri declina la necessità a suo modo, dentro ogni circostanza a lui avversa o amica, dentro ogni piega o riflesso, passo o sfumatura, scorge un nodo da sciogliere, una questione da dipanare, un discorso da approfondire, un nesso, un rimando, un lampo, tenendo una distanza che è sempre favorevole al lettore, una prossimità che mai si rivela, su carta, intimità di frequentazione. Il senso della riconoscenza è spesso sottofondo previsto da spartito, ma va dato atto a Perrella di non porsi mai dalla stessa parte del suo interlocutore, di non saltare lo steccato, proprio perché c’è devozione nell’atto dell’ascoltare, dell’apprendere, del capire, del propagare. Così, pur scandite dal tempo di raccolta di voce e pensiero, di emozione e ragione, le conversazioni hanno una loro musicalità, una loro pregnanza, e anche un impatto critico - limitatamente alla estensione della intervista - quando, dal fatto minuto, si passa comunque a una architettura più complessa tra memoria e forma, tra natura e ideologia: in questa direzione si proiettano i colloqui con Alfonso Berardinelli, Romano Bilenchi, Cesare Cases, Cesare Garboli (un Garboli dell’88, che ragiona su storia, reale e immaginario senza essere ancora l’icona che poi sarebbe diventata per una platea nuova, oggi - ma solo oggi - giustamente adorante), Ottiero Ottieri, Geno Pampaloni, i già citati Debenedetti e La Capria.
C’è poi Napoli. Napoli sotterreanea ed emersa, incanto e schiaffo, riso e malinconia, idea e sentimento, nero e bianco; sguardi multipli, da dentro e da fuori, di sbieco, di passaggio, dal perimetro e dal ventre; città che si rapprende o si espande, dileguandosi nella felicità di un momento e nel tormento di una esistenza. Esserci, per un giorno o una vita: Napoli segna, disfa, complica o divora: puoi essere un poeta laureato come il francese Yves Bonnefoy che invita in versi e in sguardi, e parole tradotte, i ragazzi di Nisida a sognare, «poiché sognare è bellezza che cerca di nascere»; o una scrittrice nomade di pensiero, in libera e vibrante uscita, come Fabrizia Ramondino, che nell’atto di ribellarsi alla sterile, asfissiante etichetta della napoletanità sapeva riconoscere la profondità della sua memoria, della sua storia, del suo essere al mondo qui e non altrove.
C’è Napoli in chi la concepisce per un’ora soltanto, l’annusa, le liscia il pelo con cautela per poi farne grumo di struggimento per quel che poteva essere e non è stato, e in chi la trascina con sé per far di conto, con la sua materia sedimentata, ogni giorno che passa: da Ginevra Bompiani, John Berger, Geoff Dyer a Michele Prisco, Italo Ferraro, Salvatore Palomba, Antonio Loffredo, Antonio Capuano, Lidia Croce, Gustaw Herling, il polacco che si fece esule e poi napoletano nel vortice della Storia. E soprattutto a Giancarlo Siani, che, come il Parise dei Fischi nel buio, è presenza più acuta nell’assenza: nel tempo che cristallizza la ferita non rimarginata, ci cammina accanto come il ragazzo parisiano «accompagnato dalle sue comete».
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Il Mattino