Se scrivo: «Don Artù, vuje sit' scem', i' na forbic' a' vot' m' mett''n man', mica doje», voi che capite? E se scrivo...
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Tornando al libro della Savino che racconta vivacemente una bella storia, e che è pubblicato da Nutrimenti, un editore di grande qualità (lo stesso che, per dire, ha mandato in libreria i romanzi di Domenico Dara, fitti di un sontuoso dialetto calabrese) si resta davvero stupefatti per il modo in cui vi viene reso il napoletano. Prendete la parola «marmllat'»: un groviglio consonantico che nemmeno il polacco o l'ungherese oserebbero tanto. Savino, che evidentemente non sa scrivere il napoletano, cerca di renderlo foneticamente attraverso la rigorosa elisione di tutte le semivocali, non solo le finali, indipendentemente dal genere maschile o femminile. Lo fa, ripeto, con inesorabile pervicacia. Non si limita, cioè, a tentare una trascrizione fonetica «soft», come accade di solito (tra i casi più recenti, in questa stagione letteraria, quelli di La Compagnia delle Illusioni di Enrico Ianniello, e, in modo diverso, di La notte non vuole venire di Alessio Arena), ma pretende di aderire fedelmente al parlato, e ottiene gli effetti citati.
Altro che «commistione sapiente di italiano e dialetto», come recita l'aletta editoriale! Non invoco una AGDN (Autorità Garante del Dialetto Napoletano). Il dialetto è una cosa seria, ma so bene che quando si scrive un romanzo destinato a un pubblico nazionale è buona pratica non farsi troppe pippe filologiche, col rischio di riuscire oscuri al lettore. Se sei un superbestseller, come Camilleri, puoi sperare che il lettore impari a capire il significato dei reiterati «macari», «taliare», «cabasisi», ecc. ecc.
Il napoletano avrebbe un vantaggio, perché è più diffuso e familiare anche fuori di Napoli, e un po' d'orecchio il lettore, anche al Nord, ce l'ha già. Così, se, consapevolmente sbagliando, scrivi «M'hann' venut' a sparà!» (Ianniello), lo fai perché sai che ti capiranno tutti. Se enfatizzi le maleparole (come in «asfaccimmechitemmuòrtstupplemmèrd!»: un esempio da Denti di Domenico Starnone), è come se la grafia scorretta amplificasse la potenza espressionistica.
Un vero maestro in questo senso era il Federì di Via Gemito di Starnone. Ma un altro maestro, il Vicienzo protagonista del Genio dell'abbandono di Wanda Marasco, aveva l'abitudine di imprecare correttamente: «Addò vaco? Chi t'è muorto! Addò vaco?»; e, un po' alla Camilleri, sapeva intarsiare il testo italiano di gemme dialettali, per cui una bottega era sempre una «puteca», una scimmia una «scigna» e una pietra una «preta». Eccola, la vera «commistione sapiente di italiano e dialetto».
Il dialetto è una risorsa per tanti scrittori napoletani (vorrei qui citarne almeno altri due: Antonella Cilento e Giuseppe Montesano), a patto che sappia misurarsi armonicamente col con-testo italiano senza restarne avulso. Un dialetto semplificato, reso foneticamente per valorizzare la sua necessità orale, è cosa accettabile e soprattutto autentica. Altrimenti è solo un inciampo. Meglio astenersi o riscrivere; magari riscontrando, ogni sabato, 'o Trummetta de «Il Mattino».
maildurante@gmail.com
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Il Mattino