Il napoletano va imparato, non mortificato (da certi libri)

Il napoletano va imparato, non mortificato (da certi libri)
di Francesco Durante
Mercoledì 20 Febbraio 2019, 11:00
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Se scrivo: «Don Artù, vuje sit' scem', i' na forbic' a' vot' m' mett''n man', mica doje», voi che capite? E se scrivo «marmllat'»; oppure «nun putev' esistr'», e soprattutto: «Arraqquav' e piant', levav' cocc' foglia secc', s'facev' na girat p' a cas', e aspttav'»? Sono arcisicuro che, se siete napoletani, rileggendo la frase riuscirete a venirne a capo. Ma sono del pari arcisicuro che di primo acchito sarete preda dello sconcerto. Le parole e le frasi che ho citato (solo un piccolo assaggio: avrei potuto stilarne un elenco lunghissimo) vengono da La sartoria di via Chiatamone, un romanzo di Marinella Savino di cui «Il Mattino» si è già occupato. Qui, dunque, non lo recensirò. Mi limito a chiamarlo in causa come ultimo (e per la verità piuttosto estremo) caso di resa grafica inappropriata del dialetto napoletano. Dico «dialetto» non tanto per il piacere di contraddire quelli che a ogni pié sospinto, ore rotundo e intonazione grave, sentenziano che «macché dialetto, il napoletano è una lingua»; bensì proprio per segnalare che casi come questo del romanzo di cui parlo ci fanno capire come e perché una lingua che soltanto un'infinitesima parte dei suoi vocanti sa scrivere o è equiparabile all'idioma residuale di una tribù amazzonica, oppure non è esattamente ciò che di solito s'intende per «lingua», cioè il codice dei giornali, delle leggi, degli atti di governo ecc. ecc.
 
Tornando al libro della Savino che racconta vivacemente una bella storia, e che è pubblicato da Nutrimenti, un editore di grande qualità (lo stesso che, per dire, ha mandato in libreria i romanzi di Domenico Dara, fitti di un sontuoso dialetto calabrese) si resta davvero stupefatti per il modo in cui vi viene reso il napoletano. Prendete la parola «marmllat'»: un groviglio consonantico che nemmeno il polacco o l'ungherese oserebbero tanto. Savino, che evidentemente non sa scrivere il napoletano, cerca di renderlo foneticamente attraverso la rigorosa elisione di tutte le semivocali, non solo le finali, indipendentemente dal genere maschile o femminile. Lo fa, ripeto, con inesorabile pervicacia. Non si limita, cioè, a tentare una trascrizione fonetica «soft», come accade di solito (tra i casi più recenti, in questa stagione letteraria, quelli di La Compagnia delle Illusioni di Enrico Ianniello, e, in modo diverso, di La notte non vuole venire di Alessio Arena), ma pretende di aderire fedelmente al parlato, e ottiene gli effetti citati.

Altro che «commistione sapiente di italiano e dialetto», come recita l'aletta editoriale! Non invoco una AGDN (Autorità Garante del Dialetto Napoletano). Il dialetto è una cosa seria, ma so bene che quando si scrive un romanzo destinato a un pubblico nazionale è buona pratica non farsi troppe pippe filologiche, col rischio di riuscire oscuri al lettore. Se sei un superbestseller, come Camilleri, puoi sperare che il lettore impari a capire il significato dei reiterati «macari», «taliare», «cabasisi», ecc. ecc.

Il napoletano avrebbe un vantaggio, perché è più diffuso e familiare anche fuori di Napoli, e un po' d'orecchio il lettore, anche al Nord, ce l'ha già. Così, se, consapevolmente sbagliando, scrivi «M'hann' venut' a sparà!» (Ianniello), lo fai perché sai che ti capiranno tutti. Se enfatizzi le maleparole (come in «asfaccimmechitemmuòrtstupplemmèrd!»: un esempio da Denti di Domenico Starnone), è come se la grafia scorretta amplificasse la potenza espressionistica.

Un vero maestro in questo senso era il Federì di Via Gemito di Starnone. Ma un altro maestro, il Vicienzo protagonista del Genio dell'abbandono di Wanda Marasco, aveva l'abitudine di imprecare correttamente: «Addò vaco? Chi t'è muorto! Addò vaco?»; e, un po' alla Camilleri, sapeva intarsiare il testo italiano di gemme dialettali, per cui una bottega era sempre una «puteca», una scimmia una «scigna» e una pietra una «preta». Eccola, la vera «commistione sapiente di italiano e dialetto».

Il dialetto è una risorsa per tanti scrittori napoletani (vorrei qui citarne almeno altri due: Antonella Cilento e Giuseppe Montesano), a patto che sappia misurarsi armonicamente col con-testo italiano senza restarne avulso. Un dialetto semplificato, reso foneticamente per valorizzare la sua necessità orale, è cosa accettabile e soprattutto autentica. Altrimenti è solo un inciampo. Meglio astenersi o riscrivere; magari riscontrando, ogni sabato, 'o Trummetta de «Il Mattino».

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