Francesco Aloia, Questo sangue masticato: «Mio nonno, il killer di Pascalone 'e Nola»

Francesco Aloia racconta, da nipote, Carlo Gaetano Orlando, alias «Tanino ’e bastimento»

Il luogo dell'omicidio
Il luogo dell'omicidio
di Ugo Cundari
Venerdì 26 Aprile 2024, 07:00 - Ultimo agg. 20:30
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 Selvaggio, incontrollabile, solitario, impulsivo, ribelle, Carlo Gaetano Orlando, nato nel 1930 a Napoli, fin da piccolo è considerato pericoloso nella sua Marano, dove «fa nu sacco ’e guàje». Ha un futuro assicurato, il padre è il sindaco del paesino e male che vada lavorerà nella segheria di famiglia dove per lo più si fabbricano sporte e ceste per la frutta. Ma Carlo Gaetano ha scelto il potere, quello ottenuto incutendo paura. Il soprannome o, meglio, come dicono da quelle parti, il «contranome», glielo ha trovato un pastore. Carlo Gaetano assomiglia a un suo capretto, «Bastimento», che è «assai vivace, caca assai il cazzo, non mangia con le altre capre, si arrampica da solo sulle colline più ripide e va a brucare l’erba dove pare a lui. Da allora quel nome gli è rimasto attaccato». 

Così Carlo Gaetano Orlando è diventato Tanino 'e bastimento, passato alla storia come uno dei grandi camorristi, vicino ai Nuvoletta, e, soprattutto, assassino di Pascalone ‘e Nola, marito di Pupetta Maresca e pezzo da novanta della criminalità napoletana degli anni Cinquanta. La storia di Tanino ‘e bastimento è raccontata nel romanzo dalle venature di autofiction “Questo sangue masticato” (Nutrimenti, pagine 212, euro 18). A scriverla, elemento che contribuisce al potere suggestivo della narrazione, è un suo discendente diretto, il nipote venticinquenne Francesco Aloia, trasferitosi da Marano a Torino alcuni anni fa. Aloia, che in alcune pagine si rivolge al nonno, mai conosciuto, riannoda gli aneddoti tramandati e le storie lette, imbastisce ragionamenti sulle fotografie di famiglia, riporta brani di lettere e diari del suo avo. Racconta insomma la vita dura di un criminale, due omicidi e molti anni di galera, che è stato anche padre dolce di sette figli e nonno premuroso di decine di nipoti.  

Tanino aveva la «grande passione della fessa» ma in un momento della sua vita pensò, disperato, di suicidarsi in carcere per l’impossibilità di prendersi cura della famiglia come avrebbe dovuto.

Uomo con un suo codice etico, un giorno non esitò a sparare contro un rivale fuori una panetteria uccidendo, per sbaglio, una neonata in braccio alla madre che si trovava lì per caso. Nel 1998 Tanino è morto per cause naturali «nel letto di casa sua, circondato dalle persone che amava».   

Il nipote ha avuto coraggio, al suo esordio, nel mettersi alla prova narrando la vita di un parente dal nome, anzi dal soprannome, così ingombrante. Quando racconti la storia di un criminale è necessario mantenere la distanza, soprattutto poi quando nei romanzi anche alcuni aspetti «umani», che possono essere letti come strumenti per ammorbidire le colpe. Aloia ha rischiato, consapevole della massima, ripetuta spesso nella fiction «Gomorra», «il sangue si mastica, ma non si sputa», ossia i membri della tua famiglia li puoi contestare, li puoi offendere, li puoi relegare in un angolino, ma mai rinnegare. 

È la scelta giusta? Non c’è alternativa, pare rispondere Aloia, perché altrimenti non avresti neanche la possibilità di maturare, evolvere, diventare diverso rispetto a chi della tua famiglia ha sbagliato. Un parente così è un peso, è una condanna, è una pena, e le colpe si ereditano, ma «per quanto possiamo essere disgustati da chi porta il sangue insieme a noi, per quanto le azioni definiscano le persone più della genetica, per quanto preferiremmo farlo colare sul pavimento piuttosto che regalarlo a una vita nuova, non lo possiamo sputare; guardiamo avanti, camminiamo, e coi denti schiacciamo i grumi di questo sangue masticato». 

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