Peppe Lanzetta: «L’importanza di chiamarsi Quentin Malinconia»

Lo scrittore attore è nel cast di «Parthenope» di Paolo Sorrentino

Peppe Lanzetta
Peppe Lanzetta
di Ugo Cundari
Domenica 21 Aprile 2024, 08:00 - Ultimo agg. 22 Aprile, 17:59
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Un tempo, come tutti i ragazzini che si rispettino, anche lui passava ore a masturbarsi, tra le immagini di Rosanna Fratello in televisione e le visioni della bonazza del terzo piano che scendeva le scale in minigonna. Tutto ha avuto inizio «a Licola mare, in una cabina azzurra dove si spogliavano prima le donne e poi i maschi. E quando veniva il mio turno andavo a odorare le mutande di un’amica di mia sorella che veniva a mare con noi e quelle di una mia cugina. Mutande bianche. Di cotone. Per niente arrapanti ma io dovevo guardarle e sniffarle». 

Crescendo, la fantasia è diventata uno strumento per scrivere canzoni, e stava anche per arrivare il successo, confida il disilluso Quentin Malinconia, protagonista dell’omonimo romanzo (Edizioni vulcaniche, pagine 172, euro 15) di Peppe Lanzetta. 

Un’etichetta discografica gli aveva offerto un supercontratto, ma pochi giorni prima di concludere è saltato tutto.

Allora Malinconia si è stordito con il sesso e «grandi cannoni sedativi». Ha iniziato a bucarsi. Ha abbandonato la musica. 

Dopo otto anni, ne è uscito pulito e si è scelto il nome d’arte di Quentin Malinconia, lui che si chiamava Ciro Tristezza. È tornato a suonare, con un repertorio tra «Se mi lasci non vale» di Iglesias e «La bambola» di Patty Pravo, scritturato in un ristorante a Villaggio Coppola dove può scoppiare una sparatoria per un piccolo sgarbo.  

Dopo qualche anno si è ritrovato coinvolto in una brutta storia di un prestito non restituito alla ‘ndrangheta, e la sua migliore amica si è presa la sifilide. 

Pagina dopo pagina avvertiamo avvicinarsi sempre di più la catastrofe finale. In fondo al tunnel si intravede una luce molto fievole. Sullo sfondo Napoli, «diventata una fessa gigantesca che parte da Castel Volturno e arrivava in provincia di Salerno». 

Finalmente è tornato il Lanzetta sfrenato, strafottente, sboccato, disperato, narratore di vite postdatate, di Bronx metronapoletani che non chiamavamo ancora Gomorra, senza remore nell’urlare contro la volgarità e lo squallore dei politici, i suicidi in carcere, la malafede dei preti, l’inferno a Gaza, il fallimento delle famiglie diventate, o sempre state, luoghi di infelicità: «Le mogli dopo l’estate vogliono il divorzio, altre coppie vanno in terapia, i figli della Noia non sanno più se perdersi su OnlyFans e farsi seghe a manovella o decidere di scendere col branco e di provarci con la prima donna avvistata». 

Pur mantenendo uno sguardo disincantato su tutto e tutti, uno sguardo pronto a cogliere falsità, debolezze, meschinità in ogni essere umano, compreso se stesso, quell’umanità Lanzetta la ama, la venera, perché siamo tutti vittime, perché la vita, come le canzoni di successo, rimane un mistero, e i misteri o si ripudiano o, come fa lui, si contemplano con la consapevolezza che la verità si può cogliere solo in un frammento, in una piccola parte. Partendo dalla sua/nostra amatissima/odiatissima «terra desolata». 

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Per dirla con le parole di Malinconia, che succede quando a un certo punto la vita si accanisce contro di te? «Non lo so... O meglio, lo so, ma ancora non mi capacito». La salvezza sta nella poesia delle piccole visioni. Come il bordo di mutandina bianca che spunta da sotto il costume delle donne al mare. La salvezza sta nella vera saggezza, quella delle madri magari ignoranti e illetterate ma capaci di stabilire i minuti giusti a seconda dei pasti prima di fare il bagno. La vera scienza della comunicazione non è nata nelle università, era quella del genitore che nascondeva un figlio sotto il sediolino dell’autobus per imbrogliare il bigliettaio. Oggi, non rimane che la fuga.

O ricordare De André: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». 

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