Morto Paul Auster, quella voce di New York che divenne una rockstar

Lo scrittore con la sua trilogia ha raccontato la Grande Mela come soltanto Lou Reed e Woody Allen

Paul Auster
Paul Auster
di Stefano Gallerani
Venerdì 3 Maggio 2024, 07:00
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A metà degli anni ‘90, Paul Auster, scomparso l’altro giorno a 77 anni, aveva tutto per incarnare lo scrittore internazionale con la «S» maiuscola. Stimato dalla critica e amato dai lettori, poco meno che cinquantenne già poteva vantare quella Trilogia di New York che sarebbe presto diventata un’opera cult per il modo in cui postmodernismo e tradizione, Borges e Hawthorne, immaginazione e realtà si mescolavano in un’amalgama accattivante e suggestiva di generi e temi. Da Città di vetro (1985) a La stanza chiusa (1986) passando per Fantasmi (1986), nel giro di un paio d’anni, Auster si era infatti imposto come una delle voci più interessanti della sua generazione (la stessa, per intenderci, di Richard Ford, Ann Beattie e Tobias Wolff). Bello di una bellezza misteriosa ed esotica, i suoi ritratti in bianco e nero con un blouson di pelle nella sua casa di Brooklyn o insieme alla seconda moglie, la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt, avevano facilmente conquistato l’attenzione anche delle riviste più patinate. A coronare il tutto, dopo la pubblicazione della Trilogia, anche il successo cinematografico: insieme a Wayne Wang, nel 1995 Auster ha infatti firmato «Smoke» e lo spin off «Blue in the face», tipici esempi di cinema americano d’essai, con grandi attori quali Harvey Keitel e William Hurt prestati alla causa e camei di protagonisti della cultura pop come Lou Reed, Jim Jarmusch e Madonna. 

Come se non bastasse, la sua biografia era un compendio di luoghi comuni virtuosi per un uomo di lettere: newyorchese di origine ebraica, per una manciata di anni aveva abitato a Parigi, come Hemingway e Gertrude Stein prima di lui, poi era tornato in America, dove aveva esordito come poeta nel 1974, come traduttore dal francese (sua, tra le altre, una versione inglese di un Tombeau d’Anatole di Mallarmé) e, infine, come narratore, nel 1982, con L’invenzione della solitudine, un testo autobiografico diviso in due parti sulla morte del padre in cui alla testimonianza personale si alternavano riflessioni più ampie sul caso, le coincidenze e la solitudine, appunto. 

Temi, tutti, che Auster non avrebbe più abbandonato ma, forse, senza mai riprenderli con quella forza e quella dirompenza che la sovraesposizione del personaggio rispetto alla persona avrebbe lasciato immaginare.

Insomma, a metà degli anni ‘90 Auster era quanto di più vicino a una rockstar il mondo della letteratura potesse immaginare.

Dopo di allora, lo scrittore di Newark (dove era nato nel 1947) è rimasto una presenza costante nel panorama letterario per tutti i decenni successivi, ma la sua stella non ha mai più brillato come nel passaggio di millennio. Da cosa sia dipeso è difficile dirlo. Schiacciato da un lato dai grandi titani nati negli anni Trenta (Philip Roth, Thomas Pyncon e Don De Lillo su tutti) e incalzato dall’altro dai più giovani David Foster Wallace, Jonathan Franzen e Bret Easton Ellis, Auster si è comunque difeso con romanzi di ottima fattura e «altre scritture» dai risultati alterni ma sempre e comunque nel solco del «più che dignitoso». Tra i primi vengono in mente Il libro delle illusioni (2002) e Sunset Park (2010); tra i secondi, Qui e ora (2013, con Coetzee) e Notizie dall’interno (sempre 2013). Trascurabili, invece, Il diario d’inverno (2012) e Invisibile (1999), leggeri al limite della superficialità, sebbene sempre costruiti con maestria e intelligenza. 

Tuttavia, nel campionato più competitivo del mondo, con il bel gioco non si vince nulla. Il successo costa caro e il prezzo ha un nome ben preciso: il Grande Romanzo Americano. Come Mailer, Ellroy o Ford prima di lui, Auster lo ha sempre saputo. E forse è per questo che, finalmente, nel 2017 si è regalato per i suoi primi settant’anni 4 3 2 1, quasi mille pagine in cui le briglia della sua fantasia e delle sue ossessioni si scioglievano in un discontinuo, intricato e ambizioso gioco di specchi che attingeva a mani basse tanto dalla soffitta autobiografica che dalla storia degli Stati Uniti (l’esecuzione dei coniugi Rosenberg, gli assassinii di Kennedy e Luther King, le lotte per i diritti civili e lo scandalo del Vietnam). Protagonista assoluto della vicenda, Archibald Ferguson, detto Archie, la cui parabola esistenziale – dall’infanzia all’ingresso nell’età adulta - è tratteggiata seguendo quattro direttrici ipotetiche. In altre parole, partendo da un nucleo comune Auster dipanava diverse storie che rispondevano tutte alla stessa domanda: cosa sarebbe successe se? La matrice, evidentemente, era quella della letteratura cosiddetta congetturale, alla quale, però, l’autore di Mr Vertigo (1999) ha sovrapposto lo schema classico del romanzo di formazione e aggiunto l’elemento di un filo rosso che attraversa tutte le vicende possibili, ovvero Amy, che rappresenta qualcosa di più e di diverso dal semplice amore. Dopo questo romanzo sull’identità (su cosa significhi e cosa la determini) e sul multiverso prima di internet e dell’intelligenza artificiale, Auster ne ha pubblicato ancora uno, Baumgartner, ma ormai la sfida con la storia e con l’ambizione l’aveva già disputata. Se l’abbia vinta o meno è presto per dirlo. E, probabilmente, anche inutile. Quello che conta è che l’abbia accettata, lasciando a noi il compito di giudicarla. Che, in fondo, è il gesto più onesto che uno scrittore possa compiere. Nemmeno l’ultimo. Arriverà nelle librerie italiane postumo, a ottobre 2024, Un paese bagnato di sangue: Einaudi pubblicherà il saggio sulle sparatorie di massa nella traduzione di Cristiana Mennella. 

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