Trapanese torna in libreria: «Racconto la paura che scatena il diverso»

Un altro romanzo sulla disabilità

Luca Trapanese
Vittorio è un trentenne posillipino, di famiglia agiata, che passa le giornate chiuso nella sua stanza con le persiane abbassate. Livio si è appena diplomato e ama...

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Vittorio è un trentenne posillipino, di famiglia agiata, che passa le giornate chiuso nella sua stanza con le persiane abbassate. Livio si è appena diplomato e ama aiutare gli altri. I due, che diventeranno amici e proveranno l'uno ad alleviare il dolore dell'altro, sono i protagonisti del romanzo Non chiedermi chi sono (Salani, pagine 224, euro 16) di Luca Trapanese, assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli, fondatore dell'associazione A Ruota Libera e di La Casa di Matteo per bambini affetti da gravi patologie. Nel 2018, primo single gay in Italia, ha adottato Alba, una bimba con la sindrome di Down, e ha scritto con Luca Mercadante Nata per te, appena diventato un film.

Dopo l'approdo al cinema un romanzo autobiografico, Trapanese? Ancora una volta emerge la sua sensibilità, la sua attenzione alla sofferenza: per una malattia, per amore, o perché non ci si sente al proprio posto nel mondo. La sua umanità di esseri «uguali nella diversità, bellissimi nell'imperfezione».
«La storia ripercorre una mia vicenda personale vissuta quando avevo venti anni. Livio, che non è un missionario ma un ragazzo normale, è lo stesso del mio precedente romanzo Le nostre imperfezioni, mio alter ego».

Anche lei aiutò un ragazzo più grande in difficoltà?
«Avevo appena finito la scuola e una lunga estate davanti. Tutto cambiò quando mi chiesero di fare volontariato con un ragazzo che, dicevano, era depresso. La sua non era depressione. Aveva vinto un concorso importante ed era stato lasciato dalla ragazza. Due accadimenti diversi, uno avrebbe dovuto portare gioia e l'altro tristezza, nella realtà causarono una sorta di shock in quella persona accendendo la sua schizofrenia. Io, come Livio, ero un ragazzo impreparato».

Come se la cavò Luca/Livio?
«Prendendosi cura dell'altra persona per diversi anni, accompagnandolo, non cercando di guarirla. Chi, come Vittorio, soffre di schizofrenia, va aiutato con l'affetto prima che con le medicine».

La prima reazione di fronte alla scena in cui compare Vittorio è quasi di fastidio.
«Presento questo ragazzo, che sente delle voci, con la camicia bianca sporca di macchie di cibo incrostato, i jeans larghi e scoloriti, le unghie dei piedi e delle mani lunghissime e ritorte, i polpastrelli ingialliti, la carnagione malaticcia, le labbra secche, la barba arruffata disseminata di briciole, lo sguardo perso nel vuoto».

Come si aiutano persone con queste difficoltà?
«Dal punto di vista umano prima che clinico. Viviamo in una società in cui tutti sono pronti a intenerirsi per una bambina con la sindrome di Down ma di fronte a un ragazzo schizofrenico che gira per strada con i vestiti stracciati e parla da solo proviamo fastidio, paura».

La famiglia di Vittorio non è molto d'aiuto.
«Perché è sola e impreparata come la maggior parte delle famiglie che convivono con una persona schizofrenica. Spesso i genitori, nei figli con problemi psicologici, vedono persone difettate che devono essere normalizzate, quasi non lo accettano, soprattutto se sono famiglie di un ambiente sociale elevato. Per paradosso, se Vittorio fosse nato in una famiglia povera i genitori non si sarebbero spaventati e avrebbero affrontato il problema».

Vittorio, dopo un breve periodo di serenità, sarà sottoposto a Tso e andrà in cura in una comunità a Formia.
«In Italia ce ne sono pochissime, molto spesso a pagamento».

In questa parte del romanzo il lettore è spiazzato.
«Non riuscirà a capire se quella che vive Vittorio è immaginazione o realtà. Volevo comunicare lo stato di dissociazione dei malati di schizofrenia, con un piede nella follia e un piede nel mondo reale».

Aiutare gli altri fa bene?
«Prendersi cura del prossimo genera felicità. Non bisogna avere paura del diverso».

Che cosa può fare un ragazzo napoletano per la Casa di Matteo?


«Non portare cose, non ci servono pacchi di pasta o vestiti. Ci servono abbracci. Ci servono volontari che vengono a prendere in braccia i bambini, che li accarezzino e stringano le loro manine». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino