È una Napoli su cui grava pesante la cappa del dolore quella dove si svolge la trama de «Il purgatorio dell'angelo. Confessioni per il commissario...
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Qui, il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, trentatreenne alla sua tredicesima inchiesta, poliziotto coraggioso nell'Italia fascista del 1933 che va verso l'autarchia, quando diverrà assai complicato ascoltare Billie Holiday e George Gershwin i cui brani risuonano in sottofondo nella pagina si misura con un delitto che proprio a Posillipo è avvenuto: padre Angelo, gesuita colto e umile, «spirito altissimo, un dono del Signore», frequentatore della buona società, apprezzato e amato da tutti, viene ritrovato con la testa fracassata. «Io confesso, ti confesso, lascialo stare, lascia che viva, io ti confesso» sono le ultime parole che rimbalzano dalla scena del crimine e Ricciardi le coglie per la misteriosa malattia, ereditata dalla follia della madre, che gli consente di percepire l'estremo messaggio dei morti ammazzati, di intercettare il loro ultimo atto di sofferenza. Essere testimone visionario del dolore del mondo e sopportarne quindi il peso angoscioso lo fa diventare vittima di quello che chiama «il fatto», l'avvenimento ma anche e soprattutto la cosa in sé del male, il senso del dolore così si intitolava, per altro, un episodio della saga del 2007 la specola tragica attraverso la quale introdursi nella vita dei personaggi, individuare le loro colpe, arrivare a dedurre un'idea della realtà nell'indifferenza disincantata tra un paradiso, un inferno e un purgatorio.
Questa rappresenta, comunque, la sua arma investigativa. In un'azione che contempla incontri, interrogatori, ricerche e confessioni. Le sue e quelle dei padri gesuiti, in un intreccio dei piani giudiziario e religioso, uno inquisitorio alla Ricciardi e l'altro mistico alla Sant'Agostino, che costituisce il terreno di più succoso significato su cui de Giovanni si misura, uno scavo nel profondo degli animi che punta allo svelamento del crimine e delle colpe. Si tratta di una sorta di pratica liberatoria molto prossima alla terapia psicanalitica, una prova di fiducia e coraggio che vede lo scontro tra la finzione e la verità per fare emergere quelle che Carl Gustav Jung definiva le ombre presenti in ognuno e che tutti hanno da accettare. La confessione diventa così esercizio da directeur de coscience, da guide dell'anima e ciò vale per venire a capo dei delitti quanto per assumere la piena consapevolezza di sé. Maurizio de Giovanni pare voler fare riferimento proprio all'inconscio collettivo, che emerge nella città fissata nei due brani di riflessione autocosciente della rosa e dell'immagine notturna e nei protagonisti della storia tutti condotti a una soglia di assunzione di responsabilità: Ricciardi capirà con chi davvero dividere i suoi giorni per sopportare in due la fatica del male come si legge nell'Ecclesiaste, Enrica si abbandonerà quindi all'amore per lui e a Bianca non resteranno che i bei ricordi, il fido brigadiere Raffaele Maione con la moglie elaborerà definitivamente il lutto per la scomparsa del figlio, l'infedele poliziotto Felice Vaccaro sarà scoperto ma non si pentirà perché secondo lui tra rapina e rapina c'è sempre una divisione di classe e urgenza di bisogno. Napoli resta comunque un purgatorio.
De Giovanni ha dichiarato che con questo episodio si avvicina il termine dato alle storie di Ricciardi, entro il 2019 ci sarà lo stop. Difficile prevederlo e anche se nelle ultime pagine delle Confessioni il commissario pare acquietarsi in un abbraccio finalmente alimentato dallo scirocco del maggio napoletano che lo pacifichi dalla sua follia de «il fatto», resta il grumo di inquietudini. L'irriducibilità, per esempio, della confessione a un principio di verità, l'incongruenza dell'esistenza simbolica rispetto al dramma della vita, la difficoltà di conciliare l'ammissione del male con l'acquisizione del perdono, l'infinita pena provocata dal dolore che non si rimargina nella ferita. Interrogativi e argomenti che richiameranno ulteriori narrazioni. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino