Le battaglie combattute tra François Furet e Michel Vovelle, il grande storico scomparso sabato all'età di 85 anni, rappresentano, forse, l'ultima grande...
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Per avventura il 1989 fu anche l'«anno mirabile» della caduta del muro di Berlino e della fine dell'Unione Sovietica. Lo straordinario corto-circuito che il calendario consegnava ai protagonisti di quella battaglia, ne rese lo scontro più incandescente e denso di significato. Mentre Furet armava la sua polemica di strumenti teorici che avrebbero costitutito, qualche anno più tardi, l'ossatura del suo celebre Il passato di un illusione, Vovelle, in quel momento presidente dell'illustre Institut d'Histoire de la Révolution française, apriva le porte ad una interpretazione «mondiale» della Rivoluzione, promuovendo dibattiti, stimolando ricerche che avrebbero dovuto aiutare a comprendere quale lascito fondamentale, quale insostituibile presenza nel mondo contemporaneo, rappresentasse quell'evento che non aveva aperto le porte solo alla libertà dei liberali, ma alla speranza di eguaglianza (e dunque ancora e più fortemente di liberazione) delle classi diseredate, dei poveri del mondo che così come non avevano da allora cessato di soffrire, non avevano neppure cessato di sperare.
Tutto questo nasceva dalle profonde convinzioni di un intellettuale che non aveva mai abbandonato il campo della riflessione teorica, spiegandosi e spiegando un marxismo tutt'altro che illibertario. Nasceva dalla forza di uno storico che non si era mai fermato alle categorizzazioni di maniera, ma aveva esplorato archivi, individuato fonti poco note e soprattutto poco convenzionali (ricordo i suoi lavori legati all'immaginario e alla rappresentazione iconica degli anni della Rivoluzione). Ma nasceva, in primo luogo, dalla inesauribile generosità del suo carattere, dalla forza della sua fiducia nell'uomo e nelle sue realizzazioni, anche quando esse sembrano mostrare limiti inevitabili e produrre errori che sono sempre la premessa di un riscatto in avanti.
Quella generosità diventava, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, un'accoglienza premurosa, un sorriso costante, condito di una ironia che sapeva sempre essere bonaria, mai cattiva. Per questo è stato, per un paio di generazioni di studiosi dell'età settecentesca e rivoluzionaria, il maestro per eccellenza, lo storico a cui sapevi di dovere e poter ricorrere, andando a Parigi, che egli non amava molto, preferendo le più misurate atmosfere della Provenza, della sua Aix, dove era poi tornato a vivere, in una casa deliziosa, sempre aperta ai suoi più giovani amici, con un ruscello se ricordo bene - che le correva accanto. Vovelle, peraltro, non era stato solo un grande studioso della Rivoluzione. La morte e l'Occidente in cui mescolava fonti e documentazioni diverse e insolite, si allinea tra i maggiori risultati di quella irriproducibile, felice stagione della storiografia francese che porta i nomi di Duby, Le Goff, Braudel.
Grande amico di Napoli ha dedicato alla sua sfortunata rivoluzione del 1799, da lui studiata con attenzione in un quadro generale che ne valorizzava la sua appartenenza alle grandi speranze dell'Europa giacobina, pagine tra le più importanti. E come non ricordare i suoi incontri con Gerardo Marotta, discussioni e lezioni nel Palazzo Serra di Cassano con un pubblico a cui piaceva la dichiarata commistione tra la battaglia del passato e quella del presente. Meminisse iuvabit, ci spiegavano allora, e questo, oggi, dichiariamo di aver imparato. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino