“Le donne all’inferno ci finiscono da sole o ce le mandano gli uomini? Una risposta non l’ho mai trovata”. Irene, o Iro per l’amico Gare, è...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
Siamo nell’autunno del 1980 a Ivrea, in quello che resta della città dell’Utopia di Adriano Olivetti. Navate industriali morte che non si rigenerano, ex Montefibre ridotta a fossile e trincera narrativa. E’ il Tetrapark dei reparti dismessi e okkupati da una varia umanità di custodi wagneriani, pitbull a guardia del nulla poetico, fantasmi di tossici e randagi che si muovono nell’oscurità, scenari di rituali rock e post-punk. Set di tiratori di lame, come il russo Lushenko, che insegna la precisione nell’evitare il bersaglio, la grazia di mancare l’amore, ma non quella di schivare i guai. Iro è una svelta, impara in fretta. Come Gare, comunica con il mondo in collect call delle cabine della Sip, ultimi totem contro l’horror vacui, prima dell’invasione degli iPhone. Un giorno incrociano le chiamate. Coincidenze.
E’ il titolo dell’ultimo romanzo di Marco Biaz, (Pagg. 192, Elliot Edizioni), 54 anni, di Ivrea, che già aveva mandato in stampa Che te lo dico a fare, Fuga dal Monsone e Trecentomila. E’ tanto che Biaz, al secolo Marco Biazzetti, non si alza più alle 5 del mattino, come faceva quando, a 15 anni, doveva arrivare al primo turno delle sei in fabbrica, come Gare, il protagonista della fiction. E, come lui, è stato più volte licenziato per non rinunciare ai corsi serali e conquistare la laurea.
“Bruciami l’anima, amico mio”. L’ultima richiesta di Iro è uno shock per Gare, mentre si avvia con una molotov sotto la giacca al funerale dell’amica, amante, nemica, animata da amorevole follia fino all’autodistruzione. E’ la consegna che gli ha lasciato nei suoi diari, che restituiscono la versione della storia attraverso lo sguardo di Iro. Ed è l’incipit della narrazione, che corre a ritroso lungo gli anni fondamentali dell’adolescenza, bruciata in solitudine nell’asfittica provincia opulenta, fino all’approdo all’età adulta. In un continuo ‘abbassando’ – direbbero gli Avion Travel – di speranze, aspettative, illusioni e desideri. Negli anni in cui le mobilitazioni studentesche cominciavano a saldarsi ai picchetti operai negli impianti industriali del nord, Iro e Gare scelgono invece una personale vendetta di fuoco, per esprimere il proprio dissenso e rivalersi delle umiliazioni e della ‘cosificazione’ subita in fabbrica da aguzzini seriali come ‘Bokassa’. All’uso dello stoppino e delle ‘champagnotte’ per confezionare le molotov erano stati addestrati da un giovane rasta, ‘il figlio di Bob’, che nel tempo muterà in uno stempiato e grassoccio segretario e sindaco leghista dai metodi estorsivi. E l’ondata di attentati, che solo inizialmente scuote la placida e paludata atmosfera di provincia, somiglierà sempre più a una farsa che non ha senso continuare. Sullo sfondo di una galleria di personaggi effimeri e ambigui, si consuma la vicenda vitale dei due fragili protagonisti. Il rincorrersi fra la fuga in avanti di Gare, proiettato verso il futuro e determinato ad annientare il passato di vessazioni, e il presente continuo di Iro, inquieto e denso di dolore. “Tua madre è scampata alle botte?” chiede in maniera retorica all’amico, che prima di emanciparsi con lo studio per cancellare il complesso di inferiorità si autolesiona per soffocare la violenza. In vittima ti convertono gli altri, in sopravvissuto ti trasformi da solo, sembra essere la risposta di Gare alla domanda iniziale dell’amica a proposito dell’inferno. Anche se, poi, il fuoco vivificatore, che garantisce l’esistenza dell’uomo, è sempre l’ultimo a corrompersi…
Leggi l'articolo completo su
Il Mattino