Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te: «I bambini in guerra si salvano da soli»

Il romanzo ispirato a storie vere negli anni della guerra nell'ex Jugoslavia

Rosella Postorino
Tra le tante circostanze struggenti di Mi limitavo ad amare te, il romanzo di Rosella Postorino (Feltrinelli, pagine 347, euro 19) ce n'è una che suscita un pensiero...

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Tra le tante circostanze struggenti di Mi limitavo ad amare te, il romanzo di Rosella Postorino (Feltrinelli, pagine 347, euro 19) ce n'è una che suscita un pensiero così potente da rimanere conficcato nella mente. Nelle catastrofi dell'umano chiamate guerre, i bambini rimasti soli si organizzano. Si aggrappano gli uni agli altri, si cercano e si trovano. Sanno sigillare il Male fuori da un cerchio di rapporti con i propri simili che ha del magico, e ne ricavano forza. I più grandi badano ai più piccoli senza che nessuno gliel'abbia insegnato, senza che le madri o i padri abbiano avuto il modo di raccomandarglielo. Fanno mondo tra sé, creano relazioni che sono capolavori istintivi di resistenza umana alle violenze, al capovolgimento delle loro vite determinato dai grandi. Lo hanno fatto nei campi di sterminio, lo fanno oggi nella guerra russo-ucraina, mostrando un innatismo del Bene che illumina i percorsi della storia con un bagliore di speranza.

I bambini si salvano da sé anche nel romanzo di Rosella Postorino, ispirato a storie vere negli anni della guerra nell'ex Jugoslavia e costruito con una proiezione temporale lunga delle loro esistenze, fino al 2011. Così, incontriamo Nada, Omar, Sen e Danilo da piccoli, nel 1992, e li ritroviamo cresciuti, tanto da poter misurare sulle traiettorie di vite vulnerate dal conflitto le conseguenze dell'odio deflagrato nella loro terra. Lei è una bambina povera, selvatica e tenera, sbeffeggiata con il soprannome di Moncherino per via di un anulare mancante. Omar, con i suoi dieci anni, è di poco più grande e si sente forte del rapporto con il fratello maggiore Sen, mentre Danilo è già un adolescente, reso sicuro di sé da una famiglia ben inserita a Sarajevo e in apparenza più strutturata. Incontriamo i primi tre nell'orfanotrofio Ljubica Ivezìc, dove già si delinea la loro attitudine a stringersi l'un l'altro, essendo stati lasciati lì da genitori impossibilitati ad occuparsene. Un bombardamento li mette in fuga, fa perdere le tracce delle madri. E induce gli organismi internazionali a caricarli su un pullman, dove a loro si aggiungerà Danilo, e spostarli in Italia, in una colonia sulla riviera adriatica percepita dai bambini non diversamente dall'orfanotrofio: come una prigione.

Lì dentro, con le suore anche brave ma insufficienti, i bambini si sentono «catalogati come bestie da allevamento»: ci sono i figli di famiglia a cui non vengono rasati i capelli e che parlano ai genitori grazie ai collegamenti dei radioamatori, e ci sono gli altri come Omar e Sen, o Nadia, cui la mancanza della madre azzanna il cuore. Fuori di lì, e nelle loro menti con i flashback del ricordo, la guerra è una bestia feroce strisciante con la sua sequenza di stupri, fosse comuni, decapitazioni, profughi. Tutte circostanze di cui ognuno ha esperienza diretta, come Danilo: per lui il proposito di piantare un seme serbo in ogni donna dell'etnia nemica risuona all'infinito nella frase riferita alla madre e pronunciata da un militare all'indirizzo del padre («te la metto incinta io»). Ed anche se quella frase si è rivelata un espediente salvifico, l'umiliazione impotente stampata sul viso del padre ne cancellerà per sempre la statura di uomo agli occhi del figlio.

Nel romanzo brani in corsivo intervallano la narrazione, come un flusso coscienziale intermittente in cui l'orrore appare levigato con strumenti poetici che hanno l'effetto di farlo balenare ancor più fortemente. Come l'istantanea su una partita di calcio vicino Sarajevo che affatica i giocatori, intenti a lanciarsi una palla poco elastica e difficile da far rimbalzare: infatti è la testa di un nemico. Ma fra queste pagine brilla una potente storia d'amore, una specie di innocente triangolo affettivo che ha al suo acme Nada, sui due lati Omar e Danilo. Forte, fortissimo emerge poi il sentimento della maternità vissuto dalle madri naturali e da chi aspira a esserlo adottando i bambini. Intense sono le pagine dell'incontro di Ivo, il fratello grande di Nada, con la madre perduta e in apparenza mai rimpianta. «Lui era la prova che si può vivere senza una madre e un padre, che si può crescere senza un abbraccio di conforto siamo tutti scagliati nel mondo verso la possibilità della morte, è all'origine del creato la mancanza di amore».

E c'è il dolore della madre adottiva di Sen e Omar, rifiutata da quest'ultimo ossessionato dalla ricerca della propria, molto imperfetta e arida ma con addosso l'odore della sua infanzia. Omar è consapevole che i genitori adottivi «avevano finalmente due figli soltanto perché era scoppiata una guerra dall'altra parte del mare: il loro desiderio più persistente si era realizzato grazie alla sciagura di un intero Paese». Quindi lui no, non sa cogliere la chance dell'adozione come invece fa Sen. Non sa salvarsi con quei grandi, li chiude fuori dal proprio dolore. Perché, a lungo termine, le ferite lasciate dalle guerre possono rivelarsi indelebili, come dimostrerà la scelta della mamma di Omar.

Condotti alla fine di questa storia necessaria da una scrittura luminosa e dolente, balenano davanti ai nostri occhi le analogie tra la guerra russo-ucraina e quella in Bosnia Erzegovina con una consapevolezza in più: tutte le guerre si assomigliano in una cosa, nel fatto di non avere mai vincitori e sempre sconfitti. 

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Il Mattino