Tra l'uscita dei ragazzi dell'istituto romano dove insegna e l'ansia perplessa di dover partecipare a un corso di aggiornamento sull'uso della lavagna elettronica,...
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«Avevo in diverse occasioni iniziato a leggerlo per poi fermarmi di fronte a una certa asperità che poco si legava alla semplicità di scrittura a cui io tendevo. - dice - È vero, lo hanno amato in tanti, da Sandro Veronesi ai Liftiba fino a Francesco De Gregori che ora ha titolato proprio Sotto il vulcano il suo ultimo lavoro. Si tratta di un'opera complessa, con vari livelli di lettura, ma oggi che mi è stato proposto da Le strane coppie sono andato fino in fondo e devo dire che all'ultima pagina mi è venuta voglia di ricominciare».
Lodoli, che cos'è: un segno del tempo che passa?
«Può darsi. Ma ripensando al film che ne trasse John Huston nel 1984 ho verificato la differenza sostanziale tra il valore della parola e l'efficacia dell'immagine. Il cinema mette in fila gli avvenimenti, la parola riesce ad avere una funzione evocatrice che crea mondi».
La parola è ancora capace di tanto?
«Per me sì. Sono sempre stato diffidente se non contrario rispetto a una parola che sia semplicemente descrizione neorealista, credendo nella sua possibilità di delineare figure forse fantastiche e surreali in grado però di custodire il vero senso della vita».
Come nel suo ultimo romanzo «Il fiume», uscito l'anno scorso per Einaudi, che ha al centro di nuovo un padre? Anche nel «Diario di un millennio che fugge» che fu il suo esordio nel 1986 era stato così?
«Mi trovo a narrare questi personaggi inadeguati, avvolti in una dimensione quasi metafisica, uomini scapestrati che sorridono in questo modo all'insensatezza della vita alla maniera del padre marito di Vapore del 2013».
Sono i fannulloni della sua trilogia dei cosiddetti principianti dell'esistenza, de «I fannulloni» del 1990, di «Crampi» del 1992 e di «Grande circo invalido» del 1993?
«Si tratta di uomini colti in un'aurea quasi magica, stralunata, rispetto ai quali i figli - ed è il caso de Il fiume - rappresentano la voce interiore della coscienza. Il piccolo Damiano viene salvato dalle acque da uno sconosciuto, mentre il padre Alessandro rimane paralizzato a guardarlo sparire. Tu sei mio padre e hai avuto paura, sembra volergli dire. Io morivo e tu ammiravi un tramonto. Pretende, quindi, di ritrovare il suo benefattore ignoto».
Ciò ha un significato generazionale?
«Più interno all'animo umano. Mi pare una circostanza che si ripete quando inseguiamo qualcosa o qualcuno, si resta in disparte o immobili mentre la via scorre via da noi».
Siamo in pieno anniversario del 77, l'anno cruciale per i cinquantenni e oltre come lei. Che ricordo ne ha?
«Di un periodo troppo vicino per poterne trarre una valutazione storica. Quella temperie di speranze in cui si pensava di cambiare il mondo e la luna, spesso declinate in termini superficiali e caotici, ha costituito comunque un momento assolutamente formativo per chi poi negli anni 80 si è misurato con la letteratura raggiungendo esiti di qualità come nelle pagine di Daniele Del Giudice, in «Camere separate di Pier Vittorio Tondelli o Luisa e il silenzio di Claudio Piersanti».
Oggi?
«Gli ultimi sono stati i post cannibali, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa e Aldo Nove. Il resto è da one shot, un colpo e via, niente destinato a rimanere».
Come si è sentito da personaggio de «La scuola cattolica» di Albinati?
«Ci conosciamo da quando avevamo 10 anni. Stesse esperienze e stessa passione per la letteratura, lui in una chiave più sociologica e io quasi spirituale. Un romanzo importante, racconta la sostanza vera di quei tempi». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino