Molti lo ricordano per la famosa marcia dei 40mila nel 1980 a Torino, quando operai e impiegati della Fiat lo seguirono in piazza per chiedere la fine dell’occupazione delle...
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Figlio di un impiegato delle Poste, laurea in economia e commercio, nel 1968 quale direttore generale della Snia Viscosa entra in contatto con Enrico Cuccia e dopo un passaggio alla guida dell’Iri e quindi di Alitalia, spinto dal patron di Mediobanca nel 1974 approda alla Fiat. Grintoso, tenace, a tratti brutale, indubbiamente di grande intelligenza, negli anni della casa torinese la sua ambizione più grande era diventare il nuovo Valletta, il manager che aveva fatto grande la casa torinese nel dopoguerra. Ma era anche passionale, estroverso, conscio del ruolo che ricopriva all’interno del sistema. Nessun timore verso la politica, capace di mettere in imbarazzo figure come Bettino Craxi e Ciriaco De Mita accusati di «rigurgiti anticapitalisti». Ma capace anche di gesti galanti e grande frequentatore dei salotti romani: il suo modello di “vita privata” era certamente Gianni Agnelli, con il quale peraltro ebbe vari scontri sulla conduzione del gruppo e soprattutto sullo scopo societario, con una certa predilezione per una Fiat modello fianziocentrica; fino al punto da prevalere nel braccio di ferro con l’altro amministratore delegato, Vittorio Ghidella, che invece puntava a mantenere la barra della Fiat nel solo settore dell’auto.
Anche i rapporti con Umberto Agnelli non furono mai davvero pacifici, ma d’altro canto per lunghi anni erano i risultati aziendali a parlare, garantendogli un potere che mediava solo con il presidente Gianni Agnelli, di cui aveva grande ammirazione (i due si davano del “lei” anche in privato).
Dopo l’uscita dalla Fiat e avere rifiutato due offerte (una dalla Zanussi e una da Silvio Berlusconi) diventa imprenditore in proprio. Guida la società finanziaria Gemina (come liquidazione aveva chiesto ad Agnelli la possibilità di acquistarne una quota) che controllava RCS-Corriere della Sera, di cui Romiti era stato presidente, che successivamente perderà. Lungimirante come pochi sulle evoluzioni del mercato globale, nel 2003 costituisce la Fondazione Italia-Cina, radunando attorno a sé decine di personalità imprenditoriali e aziende interessate al mercato cinese. Duro ma affascinato dal bello del Paese, dal 2006 al 2013 è stato presidente dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Un suo grande difetto? Troppo ha creduto nelle proprietà taumaturgiche della finanza, e non sempre ha avuto ragione. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino