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Per ogni governo è la madre di tutte le riforme: quella del Fisco. Giorgia Meloni non fa eccezione. E non a caso, nei suoi discorsi, la pone sempre in cima alle priorità strategiche per quest’anno e il prossimo. Da mesi in silenzio, molto in silenzio, il vice ministro all’Economia Maurizio Leo, sta lavorando a una nuova legge delega che rimetta mano e in profondità al sistema fiscale italiano. L’obiettivo finale è noto: arrivare a un’aliquota Irpef unica. In realtà la riforma conterrà solo un primo passaggio, una marcia di avvicinamento a questo traguardo, attraverso la riduzione a tre delle aliquote fiscali, con il primo scaglione che potrebbe essere fissato al 15 per cento per “pareggiare” i conti tra Partite Iva, autonomi e pensionati, fissando per tutti le stesse regole, le stesse detrazioni e le stesse aliquote. Ma l’ostacolo più alto sulla strada della riforma, non è tanto la struttura dell’imposta o come arrivarci. Il problema più difficile resta, come per tutte le riforme fiscali, quello delle risorse per finanziarla. Tagliare le aliquote costa. E tanto. Il governo non vuole correre il rischio che la delega finisca come quella del secondo governo Berlusconi, quando furono approvate le due aliquote fiscali, il 23 e il 33 per cento. Salvo poi lasciarle solo sulla carta per mancanza di soldi (e per l’arrivo in contemporanea della crisi economica).
L’APPUNTAMENTO
All’appuntamento, questa volta, il governo vuole arrivarci preparato e, soprattutto, con le casse abbastanza piene da permettere nella prossima manovra di Bilancio di avere spazio per finanziare nel 2024 un primo taglio delle tasse. Non è facile. Nemmeno impossibile, però. La parola che emerge da questo complesso rebus è “detrazioni”. Cosa sono è noto. Si tratta di tutti gli sconti che il Fisco concede ai contribuenti che permettono di ridurre l’imposta da pagare. Hanno, almeno in Italia, una caratteristica precisa: sono una giungla, sono in continuo aumento, e sono diventate costosissime. Negli ultimi anni l’Italia si è trasformata in una sorta di “Bonuslandia”. Certo, da quello dello psicologo fino ai mobili, dagli elettrodomestici, alle spese per gli animali domestici, ogni aiuto ha una sua ragione e una sua utilità, ma se si vuol mettere seriamente mano al taglio delle aliquote la spesa dei bonus va ridotta. In realtà una prima stretta consistente, persino troppo draconiana, c’è già stata. Il 16 febbraio scorso il governo ha vietato d’emblée la possibilità di cedere le proprie detrazioni fiscali alle imprese e alle banche. Questo significa, in altre parole, il divieto di effettuare sconti in fattura per le società di costruzioni per i bonus edilizi e quelli energetici, ma anche per l’acquisto di infissi, di caldaie, di pompe di calore o di schermature solari.
IL COLPO
Il mercato ha accusato il colpo, nonostante la promessa del governo di risolvere la questione dei 19 miliardi di crediti fiscali che sono rimasti incagliati nei portafogli delle imprese e che rischiano di portarne al fallimento diverse migliaia.
L’IDEA DI FONDO
L’idea di fondo è abbastanza semplice: scambiare la riduzione delle aliquote fiscali con una riduzione degli sconti fiscali. Non che questa sia una novità assoluta. La razionalizzazione e la revisione delle tax expenditure è quasi un mantra delle riforme fiscali. Fino a oggi però, tutti hanno fallito. Quando nel 2016 è stata istituita al ministero dell’Economia una Commissione incaricata di monitorarle, se ne contavano 444. Sette anni dopo se ne sono aggiunte altre 182. Il direttore generale delle Finanze, Giovanni Spalletta, ha ricordato che nel periodo tra il 2017 e il 2023, le tax expenditures hanno causato minori entrate per il 6 per cento del Pil. Per tagliarle si è provato, o meglio dire si è immaginato, di tutto. Di usare le franchigie (ti riconosco lo sconto solo dopo una certa somma), di usare il bisturi (vedere quali non sono più attuali e cancellarle), infine di usare l’accetta (ridurre linearmente tutti gli sconti). Il vice ministro Leo, invece, in diverse occasioni ha lasciato intendere di avere in mente una strada diversa: un plafond per gli sconti legato al reddito. Un esempio, ma solo per capire il meccanismo. Ipotizziamo che questo plafond sia di 5mila euro per chi ha un reddito di 35mila. Sarà il contribuente a scegliere se usare questo ammontare per le spese scolastiche, veterinarie, per le assicurazioni o per altro. Un modo per evitare anche l’azione delle “lobby degli sconti”. La scelta insomma, sarebbe affidata al contribuente.
L’ALTRO DOSSIER
La razionalizzazione degli sconti interesserà anche l’Iva, l’imposta sul valore aggiunto. Anche qui si tratta di un dossier da tempo allo studio e che si incrocia con le modifiche normative della Commissione europea. La sua idea il vice ministro Leo, l’ha lanciata qualche tempo fa: per alcuni beni, aveva spiegato, andrebbe introdotto un sistema simile a quello dei vaccini Covid. Questi ultimi, si ricorderà, erano stati resi esenti dall’Iva. Per alcuni beni essenziali, insomma, si potrebbe arrivare a una sorta di “aliquota zero”. «Nel settore alimentare», ha spiegato Leo, «per esempio, abbiamo il 4% per il pane, il 10% per la carne e il pesce e un 22% per una bottiglia d’acqua minerale, andare a razionalizzare», è la linea, «è assolutamente necessario». La strada potrebbe essere proprio quella usata per i vaccini Covid, da raggiungere magari con una detrazione d’imposta in grado di azzerare l’Iva sui beni di prima necessità. Il menù insomma è ampio. La volontà politica di mandare il progetto in porto è forte. Anche a costo di rimettere nel cassetto altre costose riforme, come quella di quota 41 per le pensioni. Anche perché la riforma del Fisco è considerata da Bruxelles essenziale per rilanciare l’economia italiana. Quella delle pensioni è vista invece come uno spauracchio per i conti pubblici.
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