«Lavoro ai giovani del Sud o in due anni Italia finita»: l'allarme del demografo dopo i dati Istat

«Lavoro ai giovani del Sud o in due anni Italia finita»: l'allarme del demografo dopo i dati Istat
Due anni. Alessandro Rosina osserva i dati del rapporto annuale Istat sulla situazione dell'Italia e spiega che ci sono ormai soltanto due anni di tempo per invertire la...

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Due anni. Alessandro Rosina osserva i dati del rapporto annuale Istat sulla situazione dell'Italia e spiega che ci sono ormai soltanto due anni di tempo per invertire la rotta. «L'alternativa è entrare in un circolo vizioso che conduce al declino, magari riducendosi in una posizione di difesa del quotidiano e adeguandosi a un dato di precarietà permanente», dice preoccupato. Professore di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano e coordinatore del Rapporto giovani dell'Istituto Toniolo, Rosina nel 2009 ha pubblicato da Marsilio il libro scritto con Elisabetta Ambrosi che aveva un titolo assai presago: «Non è un Paese per giovani».

Rosina, oggi è l'Istat a ribadirlo. Insomma e purtroppo, ha avuto ragione.
«Quello studio è di 13 anni fa e già allora si prefigurava lo scenario di rischio. Poi la grande recessione tra il 2008 e il 2013 ha peggiorato le condizioni dei giovani in Italia, senza che misure adeguate si rivelassero in grado di ridurre il gap. Tanto che la condizione dei cosiddetti Neet, cioè di coloro che si trovavano esclusi sia dal mondo della formazione che quello del lavoro, i Not in Education Employment or Training, in Italia è apparsa subito come la peggiore in Europa. La pandemia ha fatto il resto. Non soltanto con conseguenze assai negative sull'occupazione, ma come emerge dall'ultimo rapporto Toniolo - anche nel determinare una spirale di depressione emotiva e relazionale che rischia di far precipitare nella negazione di ogni futuro».

Sono gli effetti di un trauma che sugli organismi deboli e fragili finiscono per portare in evidenza patologie antiche?
«Certo. Oggi quel che si delinea nelle modalità ormai di un'emergenza sociale e politica è un quadro di disuguaglianze tra generazioni, classi sociali e territori. Il pericolo è di una regressione che conduce direttamente alla decadenza. Appare quindi indispensabile recuperare i ritardi nell'adozione di politiche adeguate per provare a invertire la tendenza e porre le basi di un nuovo sviluppo. E occorre per farlo in tempi brevi stabilendo priorità precise».

La prima nell'elenco?
«Il nodo da sciogliere subito è quello relativo alle prospettive di lavoro per le giovani generazioni, che soprattutto nel Sud si presenta con grave complessità. Oggi i giovani appaiono schiacciati da un doppio squilibrio: del debito pubblico, che incombe sul loro futuro, e democratico, per il venir meno di un sistema di garanzie che da un lato produce disillusione dall'altro fomenta rabbia. Non è più tollerabile che, sia per chi si mette alla ricerca di una qualsiasi occupazione e sia per coloro che si sono formati nelle Università magari all'estero, l'Italia non abbia la capacità di offrire risposte alle aspettative. Che sono le aspettative di chi intende realizzare un progetto di vita, non esclusivamente di lavoro».

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza non è in grado di consegnare delle risposte?
«Il Pnrr costituisce una importante possibilità, forse l'ultima possibilità. Le risorse sono consistenti e non dimentichiamo che sono indirizzare specificatamente ai giovani, alla Next Generation Eu. Finora, però, non ha prodotto risultati di grande rilevanza, almeno rispetto a quanto ci si attendeva».

Che cosa è mancato?
«Non è stato puntualizzato con la dovuta chiarezza che per concretizzare il Piano servono innanzitutto le competenze dei giovani. Per metterle in campo sono necessari una buona formazione e un sistema efficiente che inserisca professionalità qualificate in territori che, specie al Sud, sono sguarnite. Anche in questo caso si è dentro un circolo vizioso da scardinare: ma chi se non i giovani che hanno sensibilità ai temi del digitale, dell'ambiente e all'apertura verso l'internazionalità può svolgere questo ruolo? Si può riuscire ascoltando ciò che i vari luoghi esprimono, intercettandone le esigenze e traducendole in progetti. Però serve una alleanza proficua tra pubblico e privato, una ridefinizione del rapporto tra scuola e una formazione avanzata nella dualità apprendistato e occupazione, l'articolazione di un moderno impianto di servizi per l'impiego con sportelli per i giovani in modo da coniugare domanda e offerta».

Due anni basteranno?


«Il tempo è poco, pochissimo. Il problema è questo. Gli squilibri si accentuano e gli effetti assumo caratteristiche devastanti. Prendiamo la fascia degli Under 30: qui registriamo una riduzione di un terzo della popolazione attiva, mentre in Francia è del 10 e in Svezia del 15, e verifichiamo, a causa delle scarse occasioni di lavoro, il venir meno progressivo della tensione a costruirsi un percorso di esistenza rinunciando a far figli. In Italia il divario tra numero desiderato e numero realizzato di figli è già più alto che in Francia e Svezia. Il degiovanimento è il frutto del nostro inverno demografico. Questo significa depressione individuale e sociale. Il primo inquietante segnale verso la decadenza di un Paese». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino