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La stima è approssimativa ma sicuramente non per difetto. Nella sola città di Napoli, il mancato impatto del Superbonus 110% sugli alberghi rischia di valere circa 500 milioni di euro, la cifra che viene fuori moltiplicando la media degli interventi base per l’efficientamento energetico (30mila euro, circa) per le 15mila camere di media e alta qualità presenti negli alberghi cittadini e della provincia (in totale, più di 930 pari al 2,7% del totale nazionale). Ma si sale ancora se si considera che una regione come la Campania, fino al 2019 tra le prime sei in Italia per presenze turistiche alberghiere, vanta un numero cospicuo di poli di attrazione turistica internazionale, dalle isole alle costiere sorrentina e amalfitana, per restare al solo turismo estivo. La «botta», insomma, è forte e soprattutto inaspettata. Perché tutti gli operatori, in gran parte rappresentati da Federalberghi, davano per scontata l’estensione della misura ad alberghi e strutture ricettive nel decreto Semplificazioni. E non senza un sufficiente margine di certezza, specie dopo il pre-accordo raggiunto dall’Anci, l’Associazione dei Comuni d’Italia, in Cabina di regia prima dell’ultimo Consiglio dei ministri nel quale, invece, non ce n’è stata a sorpresa più traccia. Costi troppo elevati, ha sostenuto il governo, ma la tesi ovviamente convince poco una categoria che a causa della pandemia ha pagato insieme alla ristorazione il prezzo più duro, con perdite di circa 40 miliardi. E mentre ora la speranza è affidata alle scelte del Parlamento in sede di conversione in legge del decreto, gli albergatori rifanno i conti e ricalibrano ricavi e ripiano delle perdite, con la consapevolezza però l’inizio della stagione sembra promettere molto più, grazie alle vaccinazioni, di quella catastrofica del 2020.
Ma perché il Superbonus 110% avrebbe garantito un rimbalzo importante al settore? Al di là dell’innegabile vantaggio fiscale concesso da questa misura, si era fatta strada la prospettiva di una riqualificazione complessiva e sempre più necessaria del patrimonio ricettivo, spesso penalizzato nei confronti della concorrenza straniera dalla mancata realizzazione di interventi miglioramento non solo strutturale ma anche di funzioni e servizi, digitali in testa. Sembrava insomma l’occasione giusta per considerare il settore al pari di una vera e propria industria, come sostiene da tempo la categoria, e di potervi investire risorse certe e senza ulteriori oneri di indebitamento. Quando si chiude un albergo, ha spiegato il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca, «se è una struttura di dimensioni medio grandi, ti costa comunque 40 mila euro tra manutenzione, vigilanza, tasse, utenze e compagnia bella».
Per ora niente da fare. Per ora restano i dati e le statistiche che certificano l’effetto della pandemia. Come quelle del recentissimo rapporto Pmi 2021 di Confindustria e Cerved: «Tra le Pmi con i cali di fatturato più consistenti la gran parte si concentra nei 5 settori che più hanno risentito delle conseguenze del lockdown di marzo 2020 e delle successive chiusure: alberghiero (passato dal 43% di mancati pagamenti di fine 2019 al 58% del 2020), dettaglio moda (da 43,8% a 57,9%), organizzazione di fiere e convegni (da 34,3% a 70%), ristorazione (da 36% a 51%) e filiera dell’informazione e dell’intrattenimento (da 17,3% a 63,9%)». Ma è l’allarme Sud a fare ancora una volta notizia: «Le regioni che evidenziano livelli di rischiosità più alti nei settori a forte impatto Covid sono Sardegna (42,1%), Calabria e Sicilia (41,9%), con quote significativamente elevate fatte registrare anche nel Lazio (37,8%) e in Liguria (31,6%)».
In media il grado di rischiosità delle imprese alberghiere di piccole e medie dimensioni, che sono la stragrande maggioranza, è arrivato nel Mezzogiorno al 46%, spiega il Rapporto. Sono dati impressionanti che proiettati sugli ultimi trimestri 2021 non sembrano garantire un rimbalzo adeguato. Preoccupata anche Asshotel Confesercenti: «Da una parte – ha detto il vicepresidente Nicola Scolamacchia - le strutture ricettive italiane necessitano di misure ad hoc per restare in vita, come i ristori del 2020 rispetto al fatturato del 2019 ed il successivo piano di aiuti per i prossimi mesi, la riduzione dell’Imu, i crediti d’imposta sugli affitti, la riduzione delle tassazioni locali (Tari, Cosap, ecc). Dall’altra servono cospicui investimenti privati sul settore, per riqualificare l’offerta turistica e migliorarne l’impatto ambientale, per essere più attrattivi quando riprenderà la domanda turistica». In altre parole, l’estensione «di tutti i bonus edilizi agli alberghi, che oggi sono limitati all’edilizia privata: tra questi il bonus 110% che non capiamo perché non sia stato esteso anche a noi». Lo aveva dichiarato a gennaio, quattro mesi dopo non è cambiato nulla.
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