La gestione della piazza di spaccio più importante del Napoletano, una finta collaborazione con la giustizia, un pentimento lampo ma reale, un processo per omicidio che...
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Il suo nome non è comparso negli elenchi dei mafiosi italiani scarcerati con l’emergenza Covid-19. La sua scarcerazione è passata sottotraccia, come se si trattasse di un detenuto qualsiasi. Eppure, Franco Casillo non lo è. L’Antimafia lo ritiene un boss, un uomo capace di gestire un intero quartiere di edilizia popolare, il Piano Napoli di Boscoreale, e di trasformarlo in una piazza di spaccio H24, con turni, centinaia di uomini tra pusher e vedette attivi giorno e notte, ragazzini arruolati prima dei 10 anni per «lavorare» nell’organizzazione. E, soprattutto, un boss capace di «ingaggiare» anche uomini delle forze dell’ordine, corromperli e ottenere favori importanti, tanto da avviare una sorta di trattativa Stato-camorra, offrendo il suo contributo nella cattura di importanti latitanti. Una volta arrestato, Casillo è poi riuscito ad avviare una finta collaborazione con la giustizia, prima revocata, poi reiterata solo per la vicenda legata alla corruzione di alcuni carabinieri. Il processo su questi fatti è tuttora in corso al tribunale di Torre Annunziata, nonostante una incredibile serie di rinvii consecutivi – sei udienze di fila sono saltate – proprio quando era prevista l’ultima parte della testimonianza di Casillo, che finora ha confermato tutte le accuse, rispondendo alle domande della pm Ivana Fulco.
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Ma Casillo è ritenuto «potente» dall’Antimafia soprattutto per la sua imponente disponibilità economica. Era stato capace di investire dieci milioni di euro a Vitulazio, nel Casertano, per far costruire un intero quartiere di palazzine in via Dante: oltre 60 appartamenti, 39 dei quali già venduti e abitati, sono stati sgomberati e confiscati perché costruiti con i soldi del clan Aquino-Annunziata. Su questa vicenda a Torre Annunziata è in corso uno dei processi che vede imputati anche Alfredo e Giuseppe Vita, padre e figlio, titolari della Vita Costruzioni, Domenico Pelliccia, proprietario della Rig Costruzioni, e Concetta Imma Cirillo, moglie del boss Casillo. Sempre al tribunale di Torre Annunziata, davanti ad altri giudici, Casillo è il testimone chiave nel processo ai presunti «carabinieri infedeli» Pasquale Sario, Gaetano Desiderio e Sandro Acunzo. Carabinieri corrotti, secondo le accuse, con regali, viaggi in barca, denaro e «soffiate» decisive per la cattura di pericolosi camorristi, come il giovane killer del tenente Pittoni, ucciso in una tragica rapina da un minorenne del clan Gionta. In cambio, Casillo avrebbe ottenuto l’arresto di «concorrenti» nello spaccio di droga e la restituzione di una parte di un grosso carico di cocaina sequestrato in un container nel porto di Napoli in una brillante – e misteriosa – operazione condotta proprio da quei carabinieri.
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E poi c’è la partecipazione a un agguato. Casillo è accusato dall’Antimafia di aver attirato in trappola i fratelli Marco e Maurizio Manzo. Un duplice omicidio avvenuto nel pomeriggio del 10 febbraio 2007 al Bar Maemi di Terzigno. Uno scambio di killer e favori tra clan i Gionta di Torre Annunziata e Birra-Iacomino di Ercolano, al quale avrebbe preso parte anche Casillo, che ben conosceva le vittime, in un accordo camorristico del quale il capo della piazza di spaccio di Boscoreale sarebbe stato parte più che attiva. In primo grado era arrivata la condanna all’ergastolo, cancellata da una testimonianza ritrattata in Appello. Un’assoluzione che la Cassazione ha deciso di annullare, rimandando il processo al secondo grado di giudizio per un nuovo appello con altri giudici, ancora da fissare. Da febbraio, il suo storico avvocato Giovanni De Caprio è in carcere per scontare una condanna definitiva a sei anni.
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Il Mattino