Castellammare, delitto Carolei, i fratelli pentiti ammettono senza convincere

Castellammare, delitto Carolei, i fratelli pentiti ammettono senza convincere
I due fratelli pentiti confermano il racconto centrale, ma cadono in contraddizioni sui «dettagli» dell'omicidio. Oltre otto ore è durata la doppia...

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I due fratelli pentiti confermano il racconto centrale, ma cadono in contraddizioni sui «dettagli» dell'omicidio. Oltre otto ore è durata la doppia testimonianza dei fratelli Pasquale e Catello Rapicano, i due collaboratori di giustizia di Castellammare che si sono autoaccusati dell'omicidio di Raffaele Carolei, indicando anche i presunti complici di quel delitto maturato nell'ambito dei regolamenti di conti del clan D'Alessandro. L'Antimafia ha portato a processo Gaetano Vitale e Giovanni Savarese, due esponenti di spicco della piazza di spaccio del centro antico di Castellammare, controllata dal clan D'Alessandro. Era il settembre 2012, quando Carolei - ex cutoliano e poi affiliato agli scissionisti degli Omobono-Scarpa - fu attirato nella casa occupata abusivamente dai Rapicano con un tranello, strangolato, caricato a bordo di un'auto e poi consegnato ad altri soggetti - tutti indagati a piede libero - prima di essere gettato nel fiume Sarno. Qualche giorno dopo il delitto, i familiari denunciarono la scomparsa di Carolei, cugino di Paolo Carolei (elemento di spicco del clan D'Alessandro, oggi detenuto al 41-bis), anche se le indagini portarono dritte al caso di «lupara bianca». Il movente, ricostruito dai carabinieri coordinati dal pm Giuseppe Cimmarotta, era chiaro: Raffaele Carolei era nella «black list» del clan D'Alessandro per aver partecipato agli omicidi eccellenti della faida di camorra stabiese nelle fila degli scissionisti, agguati come quelli a Giuseppe Verdoliva e Antonio Martone, rispettivamente autista e cognato del defunto boss Michele D'Alessandro. A quegli omicidi aveva partecipato anche uno degli imputati, Giovanni Savarese.

Ieri le testimonianze fiume dei due collaboratori di giustizia hanno confermato, da un lato, la dinamica dell'efferato omicidio di camorra «senza spargimento di sangue» e l'esplosione di colpi di pistola, dall'altro sollevato dubbi, emersi nel corso dei controesami dei difensori, con il collegio difensivo formato dagli avvocati Antonio de Martino, Carlo Taormina e Giuliano Sorrentino. I due Rapicano hanno ripercorso come Carolei sia stato strangolato in quella casa di via De Turris, caricato in auto e affidato ad altri affiliati. Un'abitazione di proprietà del Comune stabiese - che l'aveva ristrutturata nel 2010 - e occupata abusivamente da Catello Rapicano, tuttora a piede libero nonostante le accuse di omicidio e la collaborazione con la giustizia: «I vigili nel 2012 vennero a controllarmi più volte per questo fatto». Nei dettagli i racconti non tornano. Pasquale Rapicano, killer pentito condannato all'ergastolo, spiega che la corda usata «era quella di una tuta grigia», che uno degli assassini «aveva i guanti neri» e che «l'omicidio era stato concordato durante alcune riunioni a Scanzano».

Suo fratello Catello, però, parla di una «corda blu» e di «guanti blu». Non sa se ci sono state riunioni ma, soprattutto, racconta un fatto inedito: «Noi eravamo già andati sotto casa di Carolei nei giorni precedenti, volevamo ucciderlo con una pistola. Ma uscì una sua nipote, quindi decidemmo di non entrare in azione». Il delitto, poi, sarebbe avvenuto nei giorni successivi. Alla prossima udienza in Corte d'Assise toccherà ai primi testi della difesa. Tra questi, spunta il nome di Antonio Rossetti, alias «'o guappone», fino allo scorso anno uno dei reggenti del clan D'Alessandro e oggi detenuto per aver gestito forniture di droga ed estorsioni. Avrebbe partecipato a un summit nei giorni successivi all'omicidio.
 

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Il Mattino