NAPOLI. Amleto perso nel suo mondo è l'unico che abbia poi una visione chiara della realtà. Lo stesso accade a Amleto Barilotti, membro di una famiglia napoletana popolare...
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Ed è in questo percorso inverso, che nasce il senso di questo spettacolo comico drammatico, tra gente che vive precariamente ma senza farsi troppe domande, alla giornata, tra figli problematici, povera casa, lavoro che non quaglia legato a una bancarella e debiti con uno strozzino, a contrasto con i dubbi e timori del figlio Amleto, il cui padre è morto in un incidente automobilistico con una Duna bianca. E lui, come da copione, dal dramma originale sul suo omonimo che legge e rilegge, lo cerca, lo vorrebbe interrogare, sino a sbottare dolorosamente: «Ma che m'hai chiamato Amleto a fare, se poi non mi comparisci, non mi parli?» Il tema è allora anche quello dell'impotenza, dell'incapacità di essere all'altezza dei modelli, che ritroviamo anche nei familiari di Amleto, inadeguati a dar credibilità ai propri personaggi, quando si trovano costretti a recitare la tragedia shakespeariana, per coinvolgerlo e farlo tornare alla realtà, cosa che alla fine accadrà e con assai maggior lucidità di tutti gli altri e incoscienza nell'improvvisa necessità di passare all'azione.
Un mondo in cui manca sempre un qualche equilibrio, una famiglia che è specchio di una società e le cui tragedie sembrano grottesche, appaiono come farse, come la riscrittura burleque di Amleto fatta a inizio Ottocento da Poole o quella del Faust con cui ha giocato Petito, ma in trasparenza i modelli resistono, hanno un senso per lo spettatore che li conosce, che sa.
Il Mattino