I Måneskin infiammano Napoli: fan in delirio al concerto del Palapartenope, la ricerca del rock perduto

Ragazze in fila dalla mattina davanti al Palapartenope per il primo dei due sold out napoletani

I Maneskin a Napoli
I biglietti in tasca da due anni, le ragazze in fila davanti al Palapartenope sin dalla mattinata di ieri hanno visto in questo tempo i Måneskin salire sul tetto del mondo....

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I biglietti in tasca da due anni, le ragazze in fila davanti al Palapartenope sin dalla mattinata di ieri hanno visto in questo tempo i Måneskin salire sul tetto del mondo. Damiano, Victoria, Thomas e Ethan si presentano sulle note di «Don’t wanna sleep» e le fans non hanno bisogno di altro. I brani dell’ultimo album, «Rush!», sono in bella mostra, ma c’è spazio anche per i primi successi: la platea li canta tutti, in inglese o in italiano non fa differenza.

Il palco è coperto da 300 corpi illuminati: è un tetto luminoso su cui i quattro ventenni romani che partirono da via del Corso possono scatenarsi, disegnare ognuno di loro un proprio percorso, alla ricerca del rock perduto (e mai ritrovato).

Quello di David è da vocalist giovane eppure già scafato, perverso e sensuale eppure rispettoso delle regole dello showbiz, dall’ugola affilata, alla ricerca di un suono sempre spigoloso, senza sprecare parole in presentazioni e chiacchiere varie. Quello della De Angelis, capelli al vento e basso sbattuto di qua e di là, è da bambina cattiva che fa a gara con il sex appeal del frontman, ogni tanto strappandogli il primato, nonostante lui si permetta il petto nudo, lei deve coprire i capezzoli con pecette a forma di «X». Quello di Raggi è il più difficile: in gonna, strapazza la sua chitarra con più perizia che in passato, ma è difficile dirlo «guitar hero», o trovare nei suoi assoli la cazzimma e l’originalità feroce che il rock richiederebbe. A salvarlo sono i riff, spesso indovinati, che riconducono tutto al ritmo primordiale del rock and roll, senza fronzoli, senza pippe. Quello ai tamburi di Torchio è più semplice, basta garantire un pulsare metronomico, senza sbizzarrirsi più di tanto, nonostante qualche concessione scenografica.

Ma quello che più sorprende è la capacità del quartetto di apparire come un corpo unico, resuscitando una ritualità diffusa nel secolo scorso, sul finire del millennio scorso: quella del concerto rock. La trasgressione retromodernista ormai è pratica più esibita che reale, la condivisione un affare social, con i telefonini che tutto riprendono e presto tutto cancelleranno, non senza averlo prima spammato sul web, che le memorie piene sono un problema.
Figli dei loro giorni, ma anche di un cortocircuito spaziotemporale che li fa assomigliare a una giurassica band glam rock, i Måneskin calano subito la carta «Zitti e buoni»: il Palapartenope esplode letteralmente, «fuori di testa», si intende. Dopo «Own my mind», arrivano «Supermodel» e «Coraline», uno dei brani più indovinati del gruppo, sono le due facce di una proposta che punta su sonorità hard’n’heavy, che però nascondono dietro il frastuono e il muro del suono una propensione da mainstream rock, qualche volta persino lacerti di melodie.

Il meglio arriva con certe spigolosità funky, certi innesti crossover (la cover di «Beggin’», non a caso alla base del successo internazionale, innanzitutto), con certi cambi di tempo che ereditano dalla generazione grunge l’importanza di disseminare i brani di discese ardite e risalite. «Baby said», «Bla bla, bla», «In nome del padre», «For your love» (la loro, non quella degli Yardbirds), «Gasoline» con la sua intro, «Torna a casa», «Vent’anni» in versione acustica, la cover di «Amandoti» dei Cccp), preparano il gran finale, con «I wanna be your slave» (senza Iggy Pop, certo), «Mark Chapman» (il brano dedicato all’assassino di John Lennon che non nasconde derive progressive), «Mammamia», «Kool kids», «The loneliest» (per bis). Stasera si replica, sempre con un trionfale sold out come tutto il «Loud kids tour», aspettando le date estive negli stadi.
 

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Il Mattino