Arriva puntuale ed è una specie di miracolo. Nemmeno un secondo di attesa: doveva scendere alle 17 e alle 17 si è materializzato nella sala conferenze...
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L’aria è un po’ assonnata, da chi si è svegliato da poco. «Mi continua a sorprendere l’entusiasmo con cui vengo accolto qui, ci sono ragazzini che non mi hanno mai visto giocare ma che si commuovono e piangono per fare una foto con me. Devo ammetterlo: dopo trenta anni continua lo stesso amore, Napoli per me è come la prima donna». Ulisse torna a Itaca, dunque. Il dio del pallone torna a Napoli per essere protagonista. «Vedere i napoletani mi rende felice, vedo nei loro occhi la loro speranza di vincere un altro scudetto. Le espressioni delle facce dei napoletani sono fantastiche», spiega. Alessandro Siani è di lato, quasi defilato al cospetto dell’argentino. E spostato ancor più ai margini c’è il sindaco Luigi De Magistris. «Io sono sempre rimasto incantato dinnanzi al genio del suo piede sinistro: da quando nel 1984 è venuto a Napoli, è cambiata la nostra genetica», dice l’attore napoletano. Il sindaco stende un tappetto rosso a D10S: «Il rilancio della nostra città passa per la cultura e la cultura è anche il calcio: e allora Maradona non può che dare una mano per il rilancio di Napoli», spiega nel suo brevissimo intervento De Magistris.
D’altronde, sono qui tutti al servizio di Sua Maestà Diego Armando che, va di fretta. «Se sono qui non ho potuto vedere la partita del Napoli», dice un po’ seccato perché dategli un pallone ma non certo un pallone. «Dicevano: “Maradona al San Carlo? Ma quando mai...” ma io sono venuto perché questo signore ha creduto in questa cosa», dice ancora Maradona. Diego spesso è inciampato nella sua gloria ma se sei stato un dio, basta la fede. Non hai bisogno di tirar sempre fuori numeri eccezionali. Il resto lo fanno rispetto e ammirazione: «Stasera andrà in scena un racconto: il racconto di quello che avevo dentro prima di entrare in campo Il Maradona che io ero dentro era nella testa di ogni tifoso del Napoli. Questo non credo l’abbia mai pensato un altro giocatore». La domenica, è il suo giorno. Benedetto e maledetto. Di domenica è nato. Di domenica ha giocato, vinto. Di domenica ha rischiato di andarsene. A Punta de l’Este nel 2000. A Buenos Aires nel 2004. Ha recitato spesso nel ruolo di se stesso (con il regista Kustrurica, per esempio) e stasera lo farà al teatro. Una prima volta. Chi si aspettava eccessi e trasgressione viene deluso. Questo è un altro Diego, quasi la sua controfigura: serio, posato. Ha fatto le 4 nella suite: nel cuore della notte ha ordinato champagne e salmone. Nel pomeriggio riceva il saluto di tre ex: Muro, De Simone e Caffarelli.
A Napoli si è consolidata la sua gloria ma si è anche consumata la sua rovina: Napoli è la sua città, il suo respiro. «Io venivo da Barcellona ed era per me indifferente vincere, perdere o pareggiare lì. Ma a Napoli no: volevo vincere. L’ho capito dopo un Napoli-Cremonese: erano in 80mila per una gara che non valeva nulla. E allora dopo andai da quell’uomo che non voleva vincere (il riferimento è a Ferlaino, ndr) e gli dissi che mi mettevo vergogna a giocare davanti a 80mila persone senza puntare allo scudetto. E nacque così lo squadrone che poi avrebbe fatto tre gol alla Juventus a Torino». Una cosa ancora non capisce, però: «I tifosi erano incredibili, facevo 4 assist, vincevamo 4 a 0 ma loro all’84’ mi gridavano “vullim ‘o gol, vullim ‘o gol ‘ Marado’”. Ma come? E i passaggi, gli assist non valevano nulla?».
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