Un avvertimento, una minaccia. Un tentativo di stoppare sul nascere la collaborazione con la giustizia di uno dei boss della zona. Un modo diretto e violento per mettere a tacere...
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Una bomba sotto casa dei D’Amico, dunque, qual è il punto? A partire da questo momento entriamo nel campo delle voci di dentro del rione, che parlano con insistenza di un nuovo pentito, della scelta collaborativa di un personaggio di spicco della camorra locale.
VENDETTA
Un nuovo pentito, la bomba dell’altra notte, incubo vendette trasversali. C’è chi teme agguati contro persone estranee ai clan, magari solo imparentate con questo o quell’affiliato, nell’eterna polveriera della periferia orientale. Ce n’è abbastanza per spingere il procuratore Giovanni Melillo a convocare un summit sulla bomba carta, sul cancello del rione Villa preso di mira la notte tra martedì e mercoledì. Attorno allo stesso tavolo, i vertici del reparto operativo del comando provinciale dei carabinieri, della squadra mobile, della Dia, sotto il coordinamento dei pm Antonella Fratello e Simona Rossi e del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. C’è un antefatto in questa storia. Siamo allo scorso quattro maggio, quando vengono arrestati quelli del gruppo di «’o lione», sette presunti killer dei D’Amico, ritenuti responsabili dell’omicidio di Luigi Mignano, consumato lo scorso 9 aprile. Ricordate l’agguato del rione Villa? Erano le 8.45, non esitarono a uccidere un uomo mentre accompagnava a scuola il nipotino di soli quattro anni: il delitto dello zainetto, per la foto di «spider man» abbandonato in strada sotto i colpi di un commando di fuoco.
SPIDER MAN
Undici proiettili, ucciso Mignano senior, ferito a una gamba il figlio Pasquale, terrorizzato il bimbo di quattro anni che, nella ricostruzione della Dda, riesce a scappare, a salvarsi la vita, quasi giocando a nascondino: si curva sotto il sediolino anteriore, trattiene il fiato e schiva i colpi esplosi verso l’auto. Intercettato in ospedale, Pasquale Mignano racconta alla moglie: «Ero convinto che avessero ucciso anche mio figlio, hanno preso in petto mio padre, poi hanno puntato contro l’auto dove c’era il bambino». E non è un caso che ben sette killer del clan D’Amico sono finiti in cella per l’omicidio di Luigi Mignano, ma anche per il tentato assassinio del piccolo con lo zainetto. Un antefatto utile a capire cosa sta accadendo a Napoli est. Tre mesi di cella, decisive intercettazioni e immagini ricavate da telecamere nel rione, che immortalano la preparazione dell’agguato e le fasi clou della fuga. Poi le parole captate, quelle in cui uno dei boss del clan D’Amico si gongola con un affiliato: «Non è finita - dice riferendosi alla guerra contro i Rinaldi - noi ci muoviamo con il cervello, siamo compatti tutti quanti noi, siamo padre-figlio e spirito santo, se mi arrestano, arrestano anche te».
Gruppo unito, monolitico, dove non c’è spazio per tradimenti o dissociazioni, dove è alto il senso di impunità per i vari colpi messi a segno. Sono ancora le intercettazioni a mostrare uno dei tratti della psicologia dei D’Amico: «Se ci giriamo dietro non sappiamo quanti ce ne stanno di morti e non ne abbiamo mai pagato uno», dice uno dei boss arrestati lo scorso maggio per l’agguato dello zainetto. Ma è stata proprio la percezione di essere messo all’angolo a spingere oggi uno dei boss a collaborare con la giustizia. Ore cariche di tensione a San Giovanni a Teduccio, le voci su un pentito eccellente si fanno insistenti, mentre le forze dell’ordine puntano ad impedire ritorsioni o vendette contro persone indifese. Da ieri, la bomba contro i D’Amico rende tutto più chiaro, ma anche tutto più maledettamente pericoloso, di fronte a una doppia esigenza: dare impulso alle nuove indagini sulla camorra di Napoli est, impedire vendette trasversali per spegnere quelle insistenti voci di dentro. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino