La voce è tranquilla e pacata, come capita dopo aver seppellito una persona cara che ha sofferto a lungo. Di chi ha metabolizzato la perdita prima ancora che diventasse...
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Si chiude così un’epoca, abbassa la saracinesca uno dei templi della pizza che ha resistito a due guerre, al colera e al terremoto, quella di un riferimento assoluto per il dopo teatro che ha visto in quelle sale liberty passare il mondo. Viene meno una delle “centenarie”, che proprio adesso si sono costituite in associazione per dare valore al tempo trascorso. Già, il tempo di una storia che non nasce qui, ma nel 1850 a piazza San Gaetano. Siamo dunque nel centro storico, dove alla fine dell’Ottocento le pizze erano davvero solo cibo povero di strada, vendute dagli ambulanti che le tenevano al caldo nei contenitori di rame appoggiati sulla testa, le «stufe», come le chiamavano. Da lì, ai primi del ‘900, il capostipite Carmine Pace si spostò in via Foria, con una nuova pizzeria che chiamò Partenope, dal nome del teatro della zona, dove si esibì anche il grande Totò. La pizzeria divenne in pochi anni una vera e propria istituzione, sino a fare del suo nome il sinonimo di pizza, conosciuto in tutta la città come «Carminiello a Partenope». Negli anni Trenta, con la bonifica di Corso Umberto e rione Carità, e lo sviluppo di molte attività in zona, Nonna Rosa, moglie di Carmine, ha una intuizione e capisce prima degli altri che la vita commerciale di Napoli si sarebbe spostata sempre di più verso Via Toledo.
Così la pizzeria di famiglia si trasferì da via Foria in una strada a pochi metri dal mare e dal porto, dalle botteghe artigiane, dal Teatro San Carlo e da Piazza Plebiscito: nacque «Ciro a Santa Brigida», dal nome del primogenito dei coniugi Pace. Negli anni ’60, pieno boom economico, la pizza di Ciro a Santa Brigida venne poi conosciuta da tutto il jet set nazionale e internazionale, come testimoniano le foto dei tanti personaggi famosi che sono passati di qui. Il locale divenne col tempo un ristorante elegante, senza mai tradire l’originaria vocazione di fare la pizza tradizionale. E anzi, a far conoscere meglio la pizza della famiglia Pace contribuirà, nel 1964, il primo premio Pizza D’Oro, vinto da Vincenzo, con una pizza che ormai è storia e tradizione anch’essa: olio, mozzarella di bufala, pomodorini e basilico.
Talento, maestria, ma anche capacità di vedere lungo sulla professione di pizzaiolo, per il settore e per la stessa città di Napoli, fanno intuire proprio a Vincenzo Pace le potenzialità dello strumento associativo e così il 5 maggio 1984 nasce per la prima volta un’associazione per stilare le regole di una vera pizza doc. E questa è l’eredità che qualche anno dopo raccoglie Antonio Pace, che seguendo le orme del padre, è diventato il fondatore e oggi il presidente della Avpn, associazione verace pizza napoletana. Oggi agli occhi dei giovani appare un conservatore, il sommo sacerdote di una tradizione divenuta marchio europeo: in realtà è stato il più grande innovatore che mai abbia avuto la pizza napoletana quando riuscì a togliere l’olio di semi e a introdurre la mozzarella di bufala alzando l’asticella della qualità di un cibo mai considerato. Oggi i tempi sono cambiati, i grandi nomi hanno subìto il vento del cambiamento, l’arrivo dei cornicioni pronunciati, le lunghe lievitazioni, l’uso di prodotti di qualità. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino