Napoli, uomini topo al rione Traiano: una vergogna lunga 30 anni

Napoli, uomini topo al rione Traiano: una vergogna lunga 30 anni
C'è un altro mondo sotto terra, e non è quello dei morti. Per entrarci devi inabissarti come uno speleologo, lasciandoti la strada sopra la testa: «six...

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C'è un altro mondo sotto terra, e non è quello dei morti. Per entrarci devi inabissarti come uno speleologo, lasciandoti la strada sopra la testa: «six feet under», o qualcosa del genere.


Il Rione Traiano è la Scampia ad Ovest di Napoli. Una periferia meno mediatica e meno iconica, ma non per questo meno dolente. È qui che centinaia di giovani coppie di Soccavo, quasi tutte con figli, hanno trovato rifugio. Li chiamano «scantinatisti»: sono figli della miseria e dell'abbandono. Figli di una Napoli invisibile e abusiva, che ogni sera scompare sotto i nostri piedi e tutte le mattine riemerge da un'oscurità che corrisponde ad un destino. «Comm' e zoccole», dice una di loro. L'analogia è brutale, ma stringe in tre parole un abisso di sofferenza.

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Perché se sotto il livello della strada di luce ne arriva poca, di «zoccole» e scarafaggi, quaggiù, ce ne stanno in quantità. «Soprattutto quando arriva il caldo, stanno ovunque: non puoi manco aprire la porta. Le blatte le abbiamo trovate pure nei piatti: è normale, se hai le fogne vicino alla finestra. Una volta mi sono ritrovata davanti un topo grosso così: era entrato dal gabinetto. Ma hanno ragione: quella è casa loro, siamo noi gli invasori», deduce Titina, i capelli corvini raccolti in un tuppo e una tuta grigia che porta notte e giorno, come una divisa. Ma il dramma non viene mai da solo. «Al pensiero delle zoccole e degli scarrafoni sudavo freddo, non dormivo più la notte», racconta ancora scossa la donna. Così, per riprendersi il sonno, ha deciso di spendere i soldi che non aveva. «Per cambiare il water ho fatto un debito di 700 euro con uno strozzino. Gliene ho dovuti ridare 1.200».

E sì che gli occupanti degli scantinati pagano una regolare fornitura di energia elettrica: le stesse istituzioni che, chiamandoli abusivi, ingiungono lo sgombero hanno emesso per quei locali il certificato di residenza. «Ci mandano le carte per il censimento, ma non fatemi ridere. Piuttosto, il Comune ha un sacco di case vuote, perchè non ce le dà?», si sfoga Angela, che come tutti qui attende da anni l'assegnazione di un alloggio che le restituisca il decoro e la speranza. E mostra una collezione di multe e denunce che ci potresti tappezzare una parete. «Solo se hai le conoscenze ti assegnano un alloggio. Ti abbandonano al tuo destino per anni. Poi, sotto elezioni, improvvisamente si ricordano che esisti».

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Eppure, sotto i palazzi del Rione Traiano, in questo quartiere sotto il quartiere inghiottito dalla terra e dalla miseria, non c'è uno scantinato libero. «Ogni fabbricato ne ha almeno due, e sono tutti occupati. Vengono come gli avvoltoi: manco il tempo di lasciarlo, che subito lo occupano. Prego, entrate», ti fa strada Anna, prendendo dalla borsa le chiavi del suo loft minore (o meglio, inferiore) sotto via Tertulliano. Prima di entrare, devi scendere una tesa di gradini e contare fino a cinque, sei, sette.

È passato da poco mezzogiorno, fuori c'è il sole, ma la porta si spalanca sulla penombra. «Ecco, viviamo qua», dice suo marito Ciro, con un tono che sottende una domanda: «C'è bisogno di aggiungere altro?». In effetti, no. Non c'è bisogno. Perché allo sguardo basta un rapido giro d'orizzonte per definire le coordinate di un'apnea materiale ed esistenziale.

Sopra le pareti del tinello-cucina divorate dall'umidità, l'unico scampolo di luce filtra dal finestrone ricavato sotto un soffitto che sarà alto si e no due metri. Il panorama, al di là del vetro, è originale assai: una Fiat Punto grigia parcheggiata accanto al marciapiede. E le scarpe della gente che ti cammina in testa. «Ogni tanto si otturano le colonne fecali e gli escrementi fuoriescono dalle fughe tra le mattonelle. Già due volte abbiamo dovuto far cambiare tutti i pavimenti», racconta Maria, che per campare fa le pulizie a sei euro l'ora. «Guadagno una trentina di euro a settimana, arrangio con gli 80 euro ogni due mesi della carta acquisti e con la pensione di mia madre. Adesso speriamo nel reddito di cittadinanza», sospira. «Le utenze? Ci siamo allacciati ai tubi dell'acqua, la spazzatura non l'abbiamo mai pagata, figuriamoci il canone Rai».

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In posti come questo, dove un apprendistato di strada porta i bambini a familiarizzare in fretta con mitra, pistole, spaccio e alleanze tra clan, l'ingiustizia sociale si mescola e si confonde con l'ordinario malaffare. E poiché l'economia criminale si fonda sulla droga, alcune di quelle cantinole sono diventate fortini perfetti per lo spaccio: sottoposti al livello della strada e per questo sottratti alla vista dei più, blindati con cancelli a prova di irruzione e telecamere per tagliare la corda in caso di visite indesiderate. Qui, d'altra parte, il turno dello spaccio monta già alle quattro del pomeriggio: un mercato alla luce del sole, spesso consumato proprio negli scantinati. «Alcuni sono stati occupati dalla camorra e vengono usati per nascondere le armi e i latitanti», riferisce un'operatrice sociale che da anni lavora al Rione Traiano, raccontando di un business della povertà sul quale lucra la criminalità. «La camorra ti aiuta ad entrarci, ma se non riesci a pagarlo, lo scantinato se lo prende e lo affitta a 400, 500 euro al mese. Oppure lo rivende a 20, 30mila euro. Purtroppo questo commercio avviene da anni, senza che nessuno intervenga. Sapete com'è, le ragazze si devono sposare e i genitori fanno un sacrificio. Io mi sento stupida: ho avuto una casa a Melito e l'ho ceduto gratis». Ma il protettorato della malavita, che da una parte spara e dall'altra elargisce, la rende più credibile, più amica. «La polizia non trasmette il valore della giustizia: fa finta di non vedere, ferma solo chi non dovrebbe fermare. Meglio i camorristi», tira le sue somme Marianna.

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Già, le ragazze di Soccavo. Sono loro ad amministrare questo condominio diffuso che si sviluppa sottoterra. «Chi si sveglia prima, se lo prende. Io entrai con mia madre a mezzanotte», ricorda Teresa, 32 anni vissuti pericolosamente nel Rione. Perché questi, spiega, sono lavori da donne. Il suo racconto dell'occupazione abusiva somiglia a quello di una guerra di posizione. «Vennero quattro macchine dei vigili urbani, i pompieri, le ambulanze, pareva na guerra. Poi venne l'assistente sociale, che mi disse che si sarebbero portati via mio figlio di 2 anni. Ma aveva madre e padre, non potevano». Quel giorno, per lei cominciarono gli arresti domiciliari volontari e necessari. «Per tre mesi uscivo solo di notte», dice. Del resto, in questa giungla di cemento, la resistenza è un esercizio indispensabile alla sopravvivenza. «Ho dormito coi tossici accampati qui fuori: per difendermi, sparsi della benzina per terra e avevo una spranga dietro la porta di ingresso. Se qualcuno provava ad entrare, ero pronta a bruciare tutto», la interrompe Tiziana.

D'altra parte, in questo mondo parallelo che ospita sopravvivenze perpendicolari, gli scantinati sono per molti l'unica opportunità di fare famiglia. L'alternativa è vivere coi genitori di lui o di lei. Come fa Caterina, bionda e corpulenta mamma di 27 anni. «Sto in una stanzetta con mio figlio: per passare, mio padre e mia madre devono scavalcare il letto. E nel balcone mi ritrovo di tutto: topi, insetti e le siringhe dei tossici». Le fa da contrappunto la sua amica Antonella: «Io vivo con mio suocero da 3 anni, la mia stanza da letto è il corridoio».

Raccontarsi, per loro, è un modo per uscire almeno un po' da una condizione di isolamento e marginalità che pure quella toglie l'aria. «Hanno in media dai 25 ai 35 anni, bassa scolarizzazione, una condizione socio-abitativa da sempre difficile e da alcuni anni anche una difficoltà di accesso alle cure sanitarie sfoglia il catalogo delle sventure un'assistente sociale -. Per questo, si sentono sconfitti in partenza, e fanno figli già a 14 anni. È il loro modo di gridare al mondo che esistono». Ma le donne degli scantinati chiedono decoro, non pietà: «Invece dei sussidi, fateci lavorare. Qui c'è tanto da fare: le strade sono malridotte, mancano gli spazzini, c'è la manutenzione del verde e da fare», reclamano. I loro mariti sono quasi tutti manovali, imbianchini, muratori. Come Pasquale, che ha trasformato un tugurio di 35 metri quadri in un accogliente monolocale. «Mio marito invece fa un po' il muratore e quando ci stanno le partite il parcheggiatore abusivo fuori al San Paolo», dice Antonella.

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Ai piccoli inquilini degli scantinati, la cui infanzia è asfissiata dagli spazi angusti di case scavate sotto terra e da un'indigenza che non concede respiro, si dovrebbero spiegare tante cose. Per Mario e i suoi due fratellini, di 12 e 5 anni, questi 25 metri quadri sono una prigione. «Abbiamo sempre la luce accesa, non c'è altra scelta», sospira la madre. Costretti a cercare fuori l'aria che manca dentro, i bambini del Rione conoscono la geografia del clan meglio delle tavole pitagoriche. Davide Bifolco, il sedicenne ucciso da un carabiniere nel settembre del 2014, era uno di loro.

Nelle vite capovolte di questi piccoli uomini, raccontate con sincera passione civile dal pluripremiato docufilm Selfie di Agostino Ferrente, dedicato proprio alla memoria di Davide, i valori s'invertono: il normale si scambia di posto con l'assurdo, il giusto con l'ingiusto, lo Stato con l'antistato, l'alleato col nemico. «In piena notte mio figlio sente chiamare Marioooo!, si sveglia di soprassalto e mi chiede: Mamma, mi stanno chiamando. Vaglielo a spiegare che quelli urlano Mario quando ci sta la polizia. E vagli a spiegare pure chi sono quelli che sfrecciano armati su moto di grossa cilindrata già dalle cinque del pomeriggio».


Fatalmente, però, arriva un momento in cui lo scoramento e la vergogna prendono il sopravvento. La bionda Giusy sfoggia un trucco marcato che le lacrime sciolgono dopo pochi attimi. «Ho pensato anche al suicidio, ora prendo le gocce per la depressione. Ma non mi posso abbattere, non me lo posso permettere». E guarda la foto dei suoi quattro figli sul comodino. «Soffrono tutti di asma, facciamo avanti e indietro dal Policlinico per curarli e stiamo sempre a comprare cortisone. Ma sono il nostro sorriso, la nostra forza». Del resto, solo chi ce l'ha il coraggio se lo può dare. E a questo «popolo che cammina sotto o muro» di sicuro non manca. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino