A zoomare su quello sconcio affiorante, sembrerebbe un acquitrino di chissà quale periferia industriale. Invece basta allargare un po' lo sguardo per accorgersi che...
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Di fronte a certi sfregi, tuttavia, c'è ben poco da essere romantici. Perché lo scempio è tale che in alcuni punti, tra le barche ormeggiate nel porticciolo di Santa Lucia, l'acqua è perfino difficile scorgerla. Sotto il sole novembrino, infatti, gli scarti si addensano fino a comporre un increscioso velo. Un mosaico della vergogna fatto in larga parte di bottiglie, piatti e vari contenitori di plastica destinati a restare lì nei secoli dei secoli. Ma il campionario è prodigo di sorprese: non mancano tavole di legno, qualche scarpa e alcune suppellettili che evidentemente non servivano più. Materiale di risulta di una barbarie che diserta ogni pudore.
Una pattumiera a cielo aperto che ristagna a un palmo dalla banchina, sotto l'isolotto di Megaride, gettando fango sulla cartolina proprio dove, in una mescolanza tipica delle città stratificate e meticce, il popolare Pallonetto scivola verso il lungomare degli alberghi di lusso e, infine, si tuffa a mare. Una contaminazione obbligata che fa di Santa Lucia, luogo d'incontro tra la Napoli dei salotti e quella plebea, dei chiattilli e degli scugnizzi, un laboratorio sociale naturale. Un patrimonio condiviso di bellezza e di opportunità che tutti i napoletani, aristocratici o proletari che siano, dovrebbero difendere non solo con le parole e i cori da stadio. Ché, a pensarci bene, per «difendere la città» basterebbe non offenderla. E invece.
E invece viene da pensare che aveva ragione Annamaria Ortese quando, era il lontano 1953, nella sua celebre discesa agli inferi partenopei scriveva che no, «Il mare non bagna Napoli». Viene da pensare che forse quel mare Napoli non lo merita. Anche perché il raccapricciante spettacolo che si para sotto gli occhi dell'avventore non mostra altro che la munnezza emersa, quella che galleggia. Solo la punta, per intenderci, di un putrescente iceberg.
Costringere il mare ad inghiottire i rifiuti, a certe latitudini, è uso - o meglio, abuso - radicato e difficile da estirpare. Non a caso, per anni i circoli velici che affacciano sul Borgo si sono cimentati con tanto di sommozzatori in periodiche attività di pulizia dei fondali, estraendo dall'acqua una collezione di avanzi da far impallidire una discarica abusiva: tubi, stoviglie, marmi, imballi, catene, cavi di metallo, bottiglie, batterie, estintori, bombole e perfino servizi sanitari, canoe, carcasse di motorini, lamiere di auto e intere imbarcazioni in vetroresina. Quando si dice toccare il fondo.
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Il Mattino