«Mio marito ammazzò Emanuele Sibillo per difenderci dalla paranza dei bambini»

«Mio marito ammazzò Emanuele Sibillo per difenderci dalla paranza dei bambini»
«Quella mattina, quando mi disse: Ho ammazzato Emanuele Sibillo, il capo della paranza dei bimbi, pensai: Non è lui l'uomo che ho sposato e ho amato dai 17 anni....

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«Quella mattina, quando mi disse: Ho ammazzato Emanuele Sibillo, il capo della paranza dei bimbi, pensai: Non è lui l'uomo che ho sposato e ho amato dai 17 anni. Poi, per sfregio o per vendetta, hanno fatto del male a mia figlia. E oggi io sono dalla parte di mio marito, che non è un camorrista: ha solo tentato di difendere la nostra famiglia». Delia Zarn, 34 anni, gli occhi neri come tizzoni, racconta per la prima volta i retroscena della faida che nel 2015 insanguinò Forcella e dintorni. Quel «no» a schierarsi con il babyboss che scatenò l'inferno («Spararono sotto casa»), un crescendo fino al delitto commesso da Andrea Manna, il suo compagno che, per questo, è stato condannato a venti anni di carcere.

 
 
 

Suo marito le parlò dell'omicidio prima di ammettere le sue colpe davanti ai magistrati.
«Sì, la mattina del 2 luglio 2015 mi svegliai e lo trovai sotto la doccia e gli chiesi: Stai uscendo?, ma lui mi rispose: Sediamoci, ti devo parlare. Ho buttato a terra Emanuele. Io non potevo credere che quelle mani che avevo stretto tante volte tra le mie avessero ucciso. Non potevo credere che il padre delle mie tre figlie fosse un killer. Delia, l'ho fatto per voi, lo ho fatto per le creature, se non lo ammazzavo ci toglieva da mezzo lui. Lo dovevo fare, ripeteva. E io non gli rispondevo, per mesi persi le parole».

Suo marito era già stato in cella, più volte.
«Ma una cosa è rubare, un'altra è ammazzare qualcuno. Ho conosciuto Andrea prima di compiere 18 anni, subito dopo sono rimasta incinta: sapevo che viveva di furti, svaligiava i negozi di notte, quando non c'era nessuno».

Lei ha mai avuto legami con la malavita?
«Ho sempre lavorato, come mio padre che fa il portiere in un istituto di credito. È il cognato di Salvatore Mirante, ucciso qualche anno fa. Ma né lui, né io, e nemmeno mia mamma abbiamo mai avuto a che fare con la malavita. E, anche mio marito, nonostante tutto, non era e non è un camorrista».

Nel 2014, era appena tornato in libertà dopo le accuse di gestire una piazza di spaccio...
«Sì, ma è stato assolto».

E dopo?
«Tutto iniziò per un no: Andrea era stato in cella con i Buonerba, che erano nel mirino dei Sibillo. Tornato a casa nel 2014, vennero gli uomini di Emanuele a cercarlo. E lo portarono a Porta San Gennaro: Ti devi mettere con noi, intimarono».

E lui disse di «no».
«Tornarono qualche settimana dopo, di nuovo si rifiutò di schierarsi dalla loro parte, lui voleva fare la sua vita».

Finì lì?
«Magari. Un po' di tempo dopo, mi contattarono dalla scuola della mia prima figlia, che allora aveva undici anni: degli sconosciuti avevano chiesto di portarla via. Fortunatamente le suore mi avvertirono e, da quel giorno, io la accompagnavo e l'andavo a prendere. Così seppi che avevano anche chiesto a tutti i bambini di indicarla. Un inferno».

Seguirono gli spari.
«In casa c'erano mia nonna e le bambine. Presentai denuncia ai carabinieri, che intervennero quella mattina. Contro ignoti. Ma i Sibillo insistevano: Se non state con noi, ve ne dovete andare; raggiungemmo anche la loro casa, a pochi metri di distanza, per tentare di spiegare».

Tutto inutile?
«Ci dissero: Tornatevene a casa, poi vi faremo sapere che cosa dovete fare».

E, alla fine, suo marito impugnò la pistola.
«Da settimane girava armato ed era sotto il palazzo dei Buonerba, quando arrivarono i Sibillo. La mattina dopo mi disse tutto. A distanza di due mesi, quando arrestarono, io ancora non gli parlavo».

Cosa è cambiato da allora?
«Tentarono di nuovo di fare del male a mia figlia, una bambina che, dopo, per un anno, non riuscì più a uscire di casa. Allora capii che mio marito aveva fatto l'unica cosa possibile. Non si può perdonare chi ti tocca le figlie, bisogna proteggerle a ogni costo».

Per proteggerle davvero, potrebbe lasciare il quartiere. Invece, continua ad abitare a due passi dalla casa del ragazzo ammazzato da suo marito. Perché?
«E dove dovrei andare? Come potrei vivere da sola, con tre figlie, senza la mia famiglia? No, io resto. Poi, magari, un giorno, quando mio marito tornerà a casa, cercheremo di rifarci una vita lontano da Napoli».

Nell'attesa, non ha più paura?
«Solo per le mie figlie. Ma non la do vinta a chi mi vuole cacciare».

Lei è tra i protagonisti di «Malavita», il docufilm di Paolo Colangeli girato nei vicoli con le donne delle famiglie di ex baby criminali. Che effetto le fa?

«Interpreto Lady Macbeth, ma quella donna e io non siamo la stessa persona: lei spinge il marito a uccidere, io, se avessi saputo, avrei tentato di fermarlo. E, nel backstage, racconto anche la mia storia, Parlarne mi aiuta ad alleggerire il peso che ho sul cuore».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino