Genny Cesarano venne usato come un «birillo», come un «bersaglio mobile» da parte di un gruppo di killer che avevano un solo scopo: «Dimostrare a...
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Una convinzione forte, da parte del giudice, che non concede alcuna attenuante ai quattro imputati, che non si scompone di fronte alla cosiddetta «alzata di mano», vale a dire il gesto con il quale gli assassini hanno preso la parola in aula, ammettendo le proprie responsabilità per l’omicidio del ragazzo. Un delitto figlio di «indifferenza» e di «inaudita ferocia», per il quale viene firmata la condanna all’ergastolo a carico di Luigi Cutarelli, Antonio Buono, Ciro Perfetto, Mariano Torre, mentre per il boss mandante Carlo Lo Russo la pena è stata di 16 anni, vista la sua decisiva collaborazione con la giustizia.
Sessanta pagine, la storia di un delitto spietato, la ricostruzione di un agguato che avrebbe potuto costare la vita anche di altri ragazzi, anche di altri giovani che in quell’alba di fine estate si attardavano all’esterno di un pub. Centrale, nella ricostruzione del delitto, la testimonianza resa dal boss Carlo Lo Russo, che - inchiodato dalle indagini della Dda di Napoli - si convince di collaborare con la giustizia. Decisivo il lavoro del pm anticamorra Enrica Parascandolo, magistrato in forza al pool della Dda guidato dall’aggiunto Filippo Beatrice, che sin dalle prime fasi successive alla morte del 17enne aveva puntato l’attenzione sul braccio di ferro tra clan della Sanità e il clan dei Lo Russo di Miano e Capodimonte. Quella notte - dice oggi la sentenza di primo grado - la cosa importante era «buttare qualcuno a terra», uccidere qualcuno alla Sanità, per replicare al fuoco subìto poche ore prima. Ed è stato Carlo Lo Russo a spiegare in aula cosa accadde tra il cinque e il sei settembre di tre anni fa: a sferrare i primi colpi fu Pietro Esposito, all’epoca boss della Sanità (ucciso a novembre del 2015), a sua volta collegato alla famiglia Genidoni, per niente disponibile ad accettare la leadership dei Lo Russo nel proprio quartiere. Passata la mezzanotte, Esposito organizzò una «stesa» in via Janfolla, quartier generale di Carlo Lo Russo, a sua volta reduce da una scarcerazione dopo una lunga detenzione. Immediata la reazione: «Fui io ad organizzare una spedizione punitiva, l’obiettivo era di uccidere il boss Esposito o uno dei suoi più stretti affiliati». Diversa fu invece la realizzazione del gruppo di killer. Da Miano partirono almeno in dieci, in sella a cinque scooter, che attraversarono Capodimonte, sbucarono nella piazza in cui viveva Esposito. Non trovarono il boss, né provarono a capire se da quelle parti fosse presente qualcuno dei suoi. Fu una spedizione a freddo, «inaudita», «spietata». Scrive oggi il giudice Vecchione: «Tra le vittime poteva esserci chiunque: ciò evidentemente non assumeva alcun interesse per i prevenuti, agli occhi dei quali non si presentavano essere umani nella loro storica individualità ma semplicemente dei bersagli, da colpire solo per dimostrare a tutti i residenti nel quartiere della Sanità che nessuno doveva osare sfidare i “capitoni”». Ergastolo, dunque, a dispetto anche della giovane età dei killer, dai 19 ai 21 anni, in uno scenario investigativo segnato sempre e comunque da una buona dose omertà anche da parte di amici e conoscenti del ragazzo ucciso. Persone-bersaglio che quella notte si salvarono per pura fortuna dai colpi esplosi dal commando. E invece le intercettazioni confermano che sin dalle prime ore fosse chiaro che i killer provenivano da Miano, che quella notte la morte di un 17enne rientrava in un copione già scritto nella guerra tra centro e periferia, tra Sanità e via Janfolla. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino