Sono passati più o meno trent’anni da quando l’area vesuviana e quella a nord di Napoli erano considerate le zone nevralgiche dell’industria del tessile....
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Poi arrivarono i cinesi, alla fine degli anni Novanta: aprirono opifici enormi dentro scantinati, lavorarono 20 ore al giorno e decretarono la fine delle imprese italiane, strozzate dalla concorrenza sleale. Dopo i cinesi, fu la volta di pakistani, indiani e cittadini del Bangladesh. Ma la crisi ha colpito anche le grandi fabbriche orientali. All’ombra del Vesuvio e a nord del capoluogo sono rimaste solo le famiglie: il cinese che con la moglie e i figli confeziona i capi a casa, per conto terzi. Sono i nuovi fasonisti, solo che lavorano il triplo e producono di più. Sono centinaia, praticamente impossibile stanarli tutti. E hanno un grosso problema: devono liberarsi dei ritagli di stoffa, gli scarti della lavorazione. Non possono tenerli nelle loro case già piccole, non li smaltiscono secondo le regole perché costerebbe troppo. Allora li affidano a personaggi senza scrupoli, che impongono tariffe e tempi di consegna. Poi queste buste zeppe di pezze di stoffa finiscono nella pineta del Parco Vesuvio o lungo le aree di sosta dell’Asse mediano. E quasi sempre vengono bruciate. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino