Dalle cartelle cliniche del Leonardo Bianchi alla scena: «La città degli Altri» racconta il disagio mentale

Dalle cartelle cliniche del Leonardo Bianchi alla scena: «La città degli Altri» racconta il disagio mentale
Il concetto di alterità può racchiudere significati e scenari differenti, e con essi delle insidie. Dalla capacità di portare a termine un proprio processo di...

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Il concetto di alterità può racchiudere significati e scenari differenti, e con essi delle insidie. Dalla capacità di portare a termine un proprio processo di individuazione, infatti, di differenziazione rispetto alla (talvolta banale) comune lettura del mondo, può sfociare nel disagio psichico – o in quello che dalla società viene considerato tale. E dunque in qualcosa da contenere, da espellere, da tenere a distanza. È spesso questa la storia della malattia mentale e di come nel tempo è stata trattata. 


E questa è in un certo senso anche la storia di “La città degli Altri” – testo di Febo Quercia (che lo dirige pure, con Fabiana Fazio), che andrà in scena questo fine settimana per l’associazione “NarteA”, al Museo dell’Archivio storico del Banco di Napoli. 

Lo spettacolo muove dalla realtà, dalle biografie di coloro che furono internati al Leonardo Bianchi – storico istituto psichiatrico napoletano, entrato a far parte anche dell'immaginario collettivo della nostra città – e lo fa attraverso la lettura delle cartelle cliniche dei pazienti, che vengono inoltre incrociate con le fedi di credito custodite proprio dall’Archivio storico del Banco di Napoli. 

Ma è lo stesso Quercia a spiegare le ragioni del proprio lavoro: «Indagando sulle cause reali dei ricoveri manicomiali, spesso non strettamente legati alla presunta anormalità dei reclusi, ma al loro essere lontani dalla finta moralità della società nella quale vivevano, il testo vuole dare voce a coloro che furono resi invisibili in vita perché volontariamente nascosti. Per fare ciò, libereremo storie prigioniere tra le carte impolverate di vecchi archivi». 

E ancora: «Non di rado, gli internati erano semplicemente persone fragili su cui veniva operato un atto di violenza, e che diventavano folli indotti dalla reclusione stessa e dalle pratiche di disumanità cui erano sottoposti».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino