Coronavirus in Campania, non basta dire «state a casa»

Coronavirus in Campania, non basta dire «state a casa»
La Campania ha dimostrato in queste settimane di poter essere considerata, sotto molteplici aspetti, una regione pilota nella guerra contro il virus. L’utilizzo del farmaco...

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La Campania ha dimostrato in queste settimane di poter essere considerata, sotto molteplici aspetti, una regione pilota nella guerra contro il virus. L’utilizzo del farmaco per l’artrite reumatoide, Tocilizumab, sperimentato a Napoli su pazienti affetti dalla malattia continua a dare risultati incoraggianti. Grazie ai test rapidi sul personale sanitario i principali ospedali provano a blindarsi per scongiurare l’esplosione di nuovi focolai e interrompere la catena dei camici bianchi infettati in corsia. La stampa internazionale, poi, plaude al modello Cotugno.


Nessun medico infettato, percorsi separati per il personale sanitario, sistemi di isolamento all’avanguardia, regole ferree e guardie giurate disposte nei corridoi per farle rispettare. Una lunga e straordinaria esperienza forgiata negli anni, a partire dai drammatici mesi dell’epidemia del colera del 1973. Eppure, proprio perché possiamo mettere in campo - e vantare - tante eccellenze, dobbiamo essere chiari nel denunciare il grande buco nero che rischia di vanificare gli sforzi fin qui sostenuti nella nostra regione: l’assistenza a domicilio dei pazienti Covid-19. All’appello - nella imponente macchina organizzativa messa in campo in Campania per fronteggiare l’emergenza coronavirus - mancano le terapie a domicilio, che poi sono le uniche in grado di intervenire sulla malattia prima che sia troppo tardi ed evitare, allo stesso tempo, l’affollamento degli ospedali.

Se insistere sulla strada del rigore e del distanziamento sociale è doveroso, per frenare l’avanzata dei nuovi contagi e impedire che gli asintomatici possano portare in giro la malattia, altrettanto doveroso è mettere i cittadini chiusi in casa nelle condizioni di curarsi efficacemente anche dal proprio domicilio. Abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere che la linea del rigore “senza se e senza ma”, scelta da De Luca, non solo sia efficace ma sia l’unica possibile per arginare la diffusione dei contagi. Deve averlo capito anche il governo, che sempre più spesso sembra adeguare la propria linea a quella dettate in anticipo dal governatore della Campania. Con altrettanta chiarezza va detto, però, che i cittadini che con grande responsabilità hanno deciso di autorecludersi devono essere messi nelle condizioni di essere monitorati costantemente dai medici di famiglia (e non solo) e di accedere alle terapie a domicilio.

Insomma, non basta dire: barricatevi in casa. Arianna, una ragazza di 27 anni che in soli otto giorni ha perso i genitori per il virus, ha raccontato a Repubblica Napoli che sua madre, stroncata dall’infezione, se n’è andata senza riuscire a ottenere neanche un tampone per tempo. Ora è morto anche suo padre. A casa sua, però, niente tamponi. «Dicono che finché non stiamo male non c’è bisogno». Spesso, però, quando si comincia a stare male non c’è più tempo. Il Mattino, nei giorni scorsi, ha raccontato la storia di Raffaele, dipendente della Poste, morto a soli 40 anni, lontano dalla famiglia, dopo aver atteso invano a casa, per diversi giorni, una visita dei medici e un tampone. «Ci dicevano, per telefono, che non era grave», è il racconto dei familiari in lacrime.

È la medicina del territorio, in tutte le sue articolazioni, il nuovo fronte nella guerra ingaggiata contro questo nemico subdolo e invisibile. Ed è in ritardo. Non solo medici di famiglia, ma anche pneumologi, pediatri di base, infettivologi ambulatoriali, specialisti distrettuali e personale dei dipartimenti di prevenzione delle Asl. Un esercito i cui soldati continuano a muoversi in ordine sparso e con pochi mezzi. La nostra regione ha compiuto uno sforzo enorme nel serrare le linee di difesa degli ospedali e le trincee delle rianimazioni, ma non è riuscita a riorganizzare le retrovie, altrettanto preziose. E a consentire loro di reggere all’onda d’urto del coronavirus. Il risultato, come ha spiegato bene Ettore Mautone su questo giornale, è che centinaia di pazienti (Covid-positivi in attesa di sviluppi clinici, asintomatici in quarantena, sintomatici sospetti in attesa di tampone) attendono un segnale per curarsi adeguatamente senza andare in ospedale. Spesso questo segnale non arriva o, quando arriva, è troppo tardi.

Il piano c’è, perché non decolla? Al vaglio della Regione c’è un articolato protocollo che prevede il coinvolgimento dell’intera “medicina di prossimità”, o di territorio, nella gestione dell’emergenza. E dunque tamponi a domicilio e somministrazione di farmaci sin dalle prime fasi della malattia, ma anche monitoraggio a distanza della respirazione e della saturazione di ossigeno. Perché questo protocollo arranca? Perché l’assistenza a domicilio - fondamentale per evitare il collasso degli ospedali - continua a restare l’anello debole della catena? I medici di base sono i primi a chiedere di essere parte attiva in questo processo. Ma occorrono dispositivi individuali di protezione, che continuano a scarseggiare, così come occorre potenziare gli strumenti di telemedicina. I camper delle cosiddette Usca (unità speciali di Continuità assistenziale) formati da medici volontari della medicina generale e da medici in formazione dovrebbero essere 1 ogni 50 mila abitanti; a Napoli sono solo 4 e fanno troppe cose da soli e con pochi mezzi.


Il virus corre veloce, non ci aspetta. Scontiamo ritardi e disastri antichi, di cui amministrazioni e maggioranze di tutti i colori politici portano le responsabilità. Ma ora c’è da serrare le fila e mettere i cittadini nelle condizioni di poter affrontare al meglio questo incubo anche dal proprio domicilio, con terapie e controlli adeguati. E, soprattutto, tempestivi. Perché la regola «state a casa» non diventi, nell’incertezza, «state a casa e affidatevi al Padreterno». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino