La solitudine di don Diana l’arma più letale della camorra

La solitudine di don Diana l’arma più letale della camorra
Il 19 marzo di venticinque anni fa don Peppe Diana cadeva sotto il piombo della camorra. Finiva così, a 35 anni e con tre colpi sparati vigliaccamente in faccia,...

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Il 19 marzo di venticinque anni fa don Peppe Diana cadeva sotto il piombo della camorra. Finiva così, a 35 anni e con tre colpi sparati vigliaccamente in faccia, l’esistenza di un sacerdote coraggioso e scomodo, che come pochi altri aveva compreso (e denunciato) gli effetti del giogo mafioso e il ruolo che la Chiesa deve svolgere nella battaglia per emanciparsene. Per apprezzare appieno la sua grandezza e rendersi conto di quanto pionieristico sia stato il suo impegno, più di tante parole basta guardare alle date. 


Quando nel Natale 1991 viene pubblicata la ormai diventata celebre lettera pastorale “Per amore del mio popolo non tacerò”, le stragi le stragi di Capaci e via D’Amelio sono ancora di là da venire e l’antimafia sociale come la conosciamo oggi quasi non esiste ancora. Figurarsi a Casal di Principe e in tutto nell’Agro aversano, dove nessuno ha ancora mai avuto il coraggio di attaccare apertamente la camorra e le sue “regole inaccettabili” imposte “armi in pugno” né di fare aperto riferimento agli scontri in atto fra i casalesi fedeli a Schiavone e Bidognetti e il gruppo scissionista di De Falco, per di più evocando “flagelli devastatori che si abbattono sulle famiglie”. 

Quello che don Diana dice e predica, tuttavia, non è all’avanguardia solo in una periferica terra martoriata dai clan. La Chiesa stessa, invitata senza perifrasi a recidere ogni ambiguità per “farsi più tagliente e meno neutrale”, non ha ancora preso posizione ufficiale contro la criminalità organizzata. Non solo non lo ha fatto la diocesi di Aversa e, più in generale, il clero meridionale, a tratti ancora ambiguo quando non indulgente, soprattutto nelle zone più infiltrate. 

A non aver ancora espresso una chiara e definitiva condanna, in quel fatidico 1991, è anche la Curia romana. Solo il 9 maggio 1993 Giovanni Paolo II pronuncerà ad Agrigento nei confronti degli uomini di Cosa nostra il celebre “Convertitevi!”, che per la prima volta schiera ufficialmente ed inequivocabilmente la Chiesa. Con un anno e mezzo di anticipo, dunque, don Diana ha anticipato addirittura la Santa Sede. 

È quindi un autentico abisso, quello che lo distanzia da chi gli è attorno, tant’è vero che la lettera pastorale non riscuote affatto seguito: l’allora vescovo di Aversa non sembra apprezzare granché e vari sacerdoti lo accusano addirittura di cercare visibilità. Neppure la sua morte, nel breve periodo, pare servire: per anni la Chiesa ha una prolungata ritrosia ad ammettere la matrice camorristica dell’omicidio e non mancano neppure gli schizzi di fango, nel tentativo (vano) di sporcare la sua figura. 

Da che parte stesse la ragione, lo dimostra il cammino “culturale” fatto in questo quarto di secolo, la ramificazione che l’antimafia sociale ha raggiunto, specie fra i ragazzi, il lavoro quotidiano di tantissimi preti di strada nei quartieri difficili. Le idee e i valori che nei primi anni ’90 parevano incomprensibili ai più oggi sono patrimonio diffuso e comune, quasi di buon senso verrebbe da dire. 

Sotto questo aspetto, don Diana ha davvero educato evangelicamente “con la parola e la testimonianza”, come mostra il suo impegno costante a favore dei più giovani, profuso nel tentativo di mostrare l’esistenza di un’alternativa alla manovalanza camorristica. Un lavoro non facile e soprattutto rischioso, come hanno dimostrato i fatti, basato però sull’inconfutabile assunto che la denuncia da sola non serva, se non è accompagnata dall’esempio concreto. 


Proprio l’accettazione della necessità di pagare un prezzo, anche salato, quando si vuole essere coerenti coi principi e gli ideali professati, è forse oggi il suo lascito più grande.
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Il Mattino