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Chiuso con successo, per il decisivo imprinting in Italia e in Europa del Presidente Draghi, il percorso di approvazione e presentazione del PNRR, probabilmente ultima nostra occasione di ammodernarci, si può finalmente discuterne nel merito. Esercizio, nel consenso o dissenso, non ozioso, considerato che per l’efficacia molto dipenderà dalla sua attuazione e anche dalle misure aggiuntive, e magari compensative su questa o quella sua linea, che il governo, o meglio i governi italiani da qui al 2026 vorranno intraprendere.
Un ambito decisivo di intervento del PNRR in una società della conoscenza come oggi si dice, e cioè quello dedicato a università, ricerca e impresa, a una prima scorsa appare certamente bisognoso di interventi aggiuntivi strutturali sui mezzi di bilancio propri del Paese, nel prossimo quinquennio, se si vuole portare l’università italiana ad agganciare sulla quota del Pil a sua disposizione almeno la Francia, se non l’irraggiungibile Germania; i paesi a noi più coerenti in termini di ambizione di sistema in Europa. Il “piano Amaldi”, di cui molto si è discusso in questi mesi, che individuava credibilmente un fabbisogno a regime di 15 miliardi all’anno da qui a un quinquennio se si voleva agganciare la Francia per il finanziamento strutturale della formazione superiore in Italia, e più determinatamente con due terzi di questo fabbisogno orientati alla ricerca di base e un terzo a quella applicata, non pare essere “atterrato” nelle pagine del PNRR. Non solo nella quantità degli impegni previsti, ma più ancora della qualità degli stessi, sostanzialmente orientati alla ricerca applicata, evidentemente ritenuta congiunturalmente più urgente per far ripartire, “riprendere”, il sistema Italia. C’è qualche dubbio che questo approccio congiunturale, sia pure necessario, sia anche sul lungo periodo un approccio tale da rendere resiliente il sistema italiano di ricerca e formazione superiore, e per il suo tramite il sistema Paese per gli ambiti che il sotto-sistema Università&Ricerca muove o può sollecitare. Già una scorsa ai “titoli” della Misura M4C2 – “Dalla Ricerca all’Impresa”, e le poste economiche che vi sono collegate, rendono evidente questo impianto.
Ad aumentare le preoccupazioni, e la necessità di essere attenti a quel che accadrà nei prossimi anni a Università&Ricerca, si aggiunge un recente documento CRUI, la Conferenza dei rettori. Un documento che, mentre ancora l’università deve metabolizzare gli interventi della Legge Gelmini, improvvidamente si impegna a proporre una riforma del reclutamento che spicca per tre elementi: 1) frammentazione delle figure “professionali” richieste, bellamente anche divise tra competenze di ricerca e competenze didattiche; 2) ulteriore precarizzazione della carriera accademica, che potrebbe giungere a 22 anni dalla laurea; 3) la trovata di permettere l’accesso a questa precarizzazione, non oltre sei anni dalla laurea o dal dottorato, che è un modo di tagliar fuori due o tre generazioni di precari attualmente attivi nell’università, e di conseguire di sghimbescio un artificiale ringiovanimento del comparto del personale docente, più dignitosamente perseguibile ampliando una buona volta gli organici. Una riforma del reclutamento e delle carriere che sembra fatta apposta per avere gli strumenti normativi per gestire una ristrutturazione del sistema Università&Ricerca sulla base della differenziazione delle “missioni” della rete degli atenei italiani: alta formazione come didattica e ricerca, pura erogazione didattica di competenze, ricerca concentrata in “campioni” nazionali ovviamente raccordati ai territori forti, con qualche residua cattedrale nel deserto nei territori deboli... Mi verrebbe da dire, occhio ragazzi. Perché alla fine tutto questo riguarda voi.
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