Il doppio fronte del Carroccio senza veri rivali

Il doppio fronte del Carroccio senza veri rivali
E sono sei. Sei a zero. La lista delle regioni vinte dal centrodestra si allunga, e verrebbe voglia di dire game over. Ma si tratta solo dell’antipasto. Con tutto il...

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E sono sei. Sei a zero. La lista delle regioni vinte dal centrodestra si allunga, e verrebbe voglia di dire game over. Ma si tratta solo dell’antipasto. Con tutto il rispetto per Molise, Friuli, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Basilicata, tutte insieme fanno una volta e mezzo gli abitanti del Piemonte, dove si corre in contemporanea alle Europee, a fine maggio. Poi – appena il tempo di tirare il fiato – arriverà tra novembre e dicembre, insieme alla Calabria, l’Emilia Romagna, la Stalingrado del centrosinistra. Se cade anche questa ultima roccaforte, l’impatto – anche simbolico – per il Pd sarà travolgente.

Con alcune conseguenze che è bene, fin da adesso, mettere in conto. La prima riguarda l’alleanza di governo. Il senso comune dominante è che i Cinquestelle si stanno facendo stritolare, e che prima mollano il connubio con la Lega, meglio è per loro. Già, ma poi? Come si terrà insieme un movimento che ha prosperato su promesse impossibili, anche grazie a uno stregone come Grillo che è riuscito a vendere la luna? Dopo il fallimento clamoroso alla prova della governabilità, chi e perché dovrebbe andargli dietro? E con quale coerenza – e credibilità - si potranno rialzare gli antichi vessilli dopo averne fatto strame durante la coabitazione con Salvini? E – soprattutto – chi dovrebbe essere il capo di questa armata allo sbaraglio? Forse la fune si spezzerà davvero, vista la confusione sotto il cielo. Ma Di Maio tenterà fino all’ultimo di far durare l’esecutivo, chiedendo all’alleato prepotente di fare qualche concessione in più.
E a Salvini converrebbe fargliene. Con l’occupazione sistematica che sta facendo del territorio, Palazzo Chigi può attendere. Se prende il Piemonte – come i sondaggi al momento prevedono – e riesce a fare breccia in Emilia, la rotta del centrosinistra si aggiungerà a quella dei grillini. Già oggi appare come il padrone del paese. Tra sei mesi lo sarebbe di fatto. Certo, il narcisismo dei leader è da sempre il loro tallone d’Achille. Ma il Capitano si è mostrato – finora – refrattario a queste sirene. Fa già il pieno di follower ogni giorno, e quello dei voti a ogni elezione. Può lasciare ancora per un po’ Conte andare il giro per il mondo a far finta di fare il primo ministro.
L’unica minaccia sarebbe una nuova leadership capace di – provare almeno ad – oscurarlo. È l’incognita di Zingaretti. Non gli si poteva certo chiedere un miracolo in Basilicata, dove ha incassato una sconfitta onorevole. Ma se il Pd perde il Piemonte, qualche mugugno ce lo si deve attendere. E se capitolasse l’Emilia, quali sarebbero le reazioni di un partito che – fino a ieri – si è distinto soltanto per la rissa delle sue fazioni interne? Zingaretti rischia di compiere – mutatis mutandis – lo stesso errore di Renzi. Che credette di potersene infischiare dei risultati delle elezioni cittadine, puntando tutte le sue carte sulla vittoria referendaria. Ma la perdita prima di Roma, poi di Napoli e Torino furono piombo nelle sue ali, e il segnale che aveva perso il contatto coi territori. Oggi, il neo-segretario sembra convinto che si voterà a breve. Può darsi che abbia ragione e che, se si andasse alle urne, potrebbe rosicchiare qualche punto percentuale ai Cinquestelle. Ma poi? Con tutta probabilità, il centrodestra avrebbe i numeri per governare da solo. E – inesorabilmente – si arriverebbe al voto emiliano. Sono queste le forche caudine da cui non c’è modo di scappare.
Recuperare in pochi mesi i ritardi accumulati negli ultimi anni è una impresa quasi impossibile. Ma se c’è una strada, passa per due scelte obbligate. La prima – lo ricordava Paolo Mieli sul Corriere ma anche Veltroni su Repubblica – è la semplificazione del messaggio. Pochissime idee guida, non l’elenco da manuale sovietico di opinabili soluzioni a tutte le incombenze immaginabili. Un segretario non deve fare quadrare il mondo, ma ispirare e mobilitare i suoi seguaci. L’altra scelta è una radicale riforma del partito. Zingaretti l’ha annunciata dal podio del congresso, è la sua vera prova del fuoco. Se davvero dimostra di volere un nuovo modello di partito, se mette seriamente in cantiere il cambiamento così spesso evocato, può anche rischiare di perdere i prossimi appuntamenti elettorali. La sconfitta può essere presentata come il prezzo di una lunga marcia necessaria per ricostruire la sinistra. 

Ma il nuovo modello di partito deve essere ben visibile, palpabile. Come sono sempre stati quelli che hanno impresso una svolta nel Paese: prima la Lega, poi Forza Italia e, più di recente, i Cinquestelle. E come non è mai stato il Pd, che ha divorato, col suo immobilismo, tutti i suoi leader – e se stesso. Il vantaggio, per Zingaretti, è che dovrebbe conoscere già l’esito che lo attende se non cambia tutto. Ma non è facile sfidare il destino, anche quando è annunciato.  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino