Il riformismo e la rinuncia a cambiare

Il riformismo e la rinuncia a cambiare
Se c’è stato un tempo in cui la parola più ambigua per la sinistra italiana era rivoluzione, oggi l’ambiguità si concentra attorno al vocabolo...

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Se c’è stato un tempo in cui la parola più ambigua per la sinistra italiana era rivoluzione, oggi l’ambiguità si concentra attorno al vocabolo riformismo. Per riformismo, a sinistra, si è sempre inteso l’applicazione in politica del realismo. Cioè, fare le riforme laddove le condizioni storiche e i rapporti di forza lo permettano. Anche in questa versione non viene meno, però, l’ambizione dei riformisti di modificare i rapporti economici a favore dei ceti meno abbienti lasciando all’analisi del contesto l’intensità di tali cambiamenti. 


E comunque, sempre tenendo aperto un tempo futuro in cui si troveranno spazi per tentativi più ambiziosi di cambiare le cose. Insomma, il riformismo di sinistra ha avuto a che fare (per dirla con Mario Tronti) con questa condizione umana e politica: il mondo attuale è difficile da accettare e un altro mondo è impossibile da costruire. 
Il riformismo del Pd dei nostri tempi, invece, non solo coincide con l’impossibilismo, ma sconfina spesso nel cinismo. Per esso non solo è impossibile cambiare le condizioni economiche a favore dei ceti che si dovrebbero rappresentare, ma non vale affatto la pena di farlo. Di più, vanno combattuti come veri nemici coloro che si ostinano a volere cambiare, piuttosto che quelli che resistono per loro interessi economici a qualsiasi cambiamento. E così la sinistra opera per via psicologia una trasformazione irreversibile della propria identità: ci si innamora di ciò che non si può cambiare, e lo si trasforma nel migliore dei mondi possibili, disprezzando e odiando coloro che ancora pensano di poterlo e di doverlo fare. E se la insoddisfazione sociale portava al riformismo, l’accettazione dello stato delle cose porta al cinismo. Il riformismo in questa versione si confonde con il moderatismo, e i moderati con i timorati. E per il riformista timorato non c’è peggiore cosa del radicalismo, soprattutto se viene dal proprio mondo. 
Il mio convincimento è che il populismo antisistema (quello dei 5 stelle e quello leghista) sia il prodotto anche della perdita d’identità della sinistra storica in Italia e sia al tempo stesso conseguenza del suo riformismo timorato. Le troppo preoccupazioni per il radicalismo di sinistra hanno comportato l’abbandono completo del campo delle rivendicazioni sociali. Ci sono vuoti in politica che vengono immediatamente riempiti se coloro che quegli spazi storicamente li hanno occupati alla fine li abbandonano. Perché alcuni bisogni sociali chiedono necessariamente rappresentanza. E se non lo fa la sinistra, qualcun altro ne prende il posto. I ceti sociali meno abbienti li si può trattare con indifferenza o arrivare addirittura a disprezzarli (dopo averli per anni rappresentati) ma essi non se ne stanno con le mani in mano a contemplare l’indifferenza o il fastidio dei loro appassionati di un tempo; e se non trovano ascolto in forze riformiste capaci di trasformare il loro malessere in forza economica e civile, si affidano a chi investe solo nella forza distruttiva del loro rancore. In questo modo l’egualitarismo della sinistra si trasforma in rancorismo delle forze populiste. E così chi scende la scala sociale (o se la vede preclusa) guarda a destra, mentre guarda a sinistra chi è salito socialmente. I processi di borghesizzazione, per dirla ancora con Tronti, vengono intercettati dalla sinistra, i processi di proletarizzazione vengono intercettati dalla destra. C’è cosa politicamente più strana di questa? Il partito della sinistra trova consenso solo nei ceti medi più istruiti e professionalizzati, e a loro volta i Sindacati (che facevano capo alla sinistra) tra le categorie più forti e garantite. 

C’è, sicuramente, in questo prevalere del conflitto istituzionale al posto di quello sociale un elemento di continuità nella sinistra italiana. Craxi, Napolitano, D’Alema e Renzi sono stati uniti dalla stessa ossessione per le riforme istituzionali, dalla «Grande riforma» dei socialisti degli anni ottanta, alla bicamerale di D’Alema fino alle riforme costituzionali di Renzi. Da questo punto di vista si può tranquillamente dire che D’Alema è figlio di Napolitano e Renzi di D’Alema. Paternità non consapevoli, ma comportamenti e valori nello stesso solco culturale e politico. Se aggiungiamo il desiderio di Bertinotti di fare il presidente della camera più che il ministro, quasi a sancire che essere un rappresentante delle istituzioni è più rivoluzionario che cambiare le condizioni materiali delle persone, il quadro è completo. 

Ma mentre i ceti alti della società sono in grado di apprezzare il valore delle istituzioni e del loro grado di funzionamento ai fini del miglioramento della loro vita quotidiana, i ceti sociali bassi sono ossessionati dall’andamento dell’economia, dei tassi di disoccupazione, dall’aumento dei prezzi e delle bollette, dagli immigrati che possono diventare concorrenti su risorse scarse. Le condizioni sociali ed economiche preoccupano i ceti bassi, le condizioni delle istituzioni preoccupano i ceti medio-alti. È stato, dunque, il cambiamento radicale dei referenti sociali della sinistra che alla fine ha inciso sulle sue priorità. All’egualitarismo è subentrato l’istituzionalismo. E gli esponenti del Pd si sono specializzati in leggi elettorali, in riforme delle istituzioni, capaci di lunghissimi confronti su quale è il sistema migliore di voto piuttosto su qual è la migliore proposta di vita. E mentre i socialisti ai tempi di Craxi e Martelli proposero il merito in alternativa ai bisogni (anzi provando a coniugare meriti e bisogni) il Pd ha confuso i bisogni sociali con le architetture istituzionali. O tutt’al più i bisogni con i diritti.
Il Pd sul campo dei diritti individuali si è impegnato molto e ha ottenuto dei risultati. La concezione libertaria è un apporto recente e di grande qualità alle tradizioni storiche della sinistra italiana. Un prodotto della rivoluzione del sessantotto, della contestazione studentesca: l’inclusione dei diversi (per condizioni sociali, per stili di vita o per orientamenti sessuali) come propria ragione politica. Ma mentre nel recente passato la sinistra libertaria si affiancava a quella egualitaria, oggi sembra averla totalmente soppiantata. Insomma, la sinistra italiana è diventata esperta in istituzioni e in diritti civili. Ed è naturale che chi non si sente rappresentato da queste identità si rivolge ad altri. Perché meravigliarsene?


L’aumento della capacità comunicativa della sinistra si è sviluppata in maniera inversamente proporzionale alla sua debolezza di pensiero. Gigantesca capacità comunicativa e gigantesca debolezza di pensiero. Questa la condizione di oggi. A leggerezza organizzativa, di pensiero, morale mentre il mondo si rifaceva pesante.
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Il Mattino