L’Autonomia e il vizio d’origine

L’Autonomia e il vizio d’origine
Dopo un avvio animato, il dibattito sul regionalismo differenziato non ha perso vigore. Ciò non vuol dire che non bisogna provare a ragionare sul tema in maniera pacata,...

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Dopo un avvio animato, il dibattito sul regionalismo differenziato non ha perso vigore. Ciò non vuol dire che non bisogna provare a ragionare sul tema in maniera pacata, sine ira ac studio. Dalla parte della Costituzione, nella sua interezza e omogeneità normativa. Volere differenziare le competenze regionali, attribuendo «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», vorrebbe dire dare attuazione a un comma di un articolo della Costituzione, il 116. 



Ben altra cosa, però, è collocare questo provvedimento nel contesto più ampio dell’assetto costituzionale. Una legge deve essere conforme alla Costituzione e non soltanto a un segmento normativo di essa. Perché anche laddove andasse ad attuare una disposizione costituzionale, dovrebbe comunque andare ad armonizzarsi con l’intero quadro costituzionale. Quello che non è ancora riuscito all’intero Titolo quinto della Costituzione, che è stato un poderoso innesto, ovvero un trapianto costituzionale disallineato rispetto al disegno armonico della Carta. Come se si fosse voluto creare un pezzo di in-costituzione nella Costituzione: una sorta di mostriciattolo nel grembo materno. Il problema del regionalismo che si vorrebbe fosse federalismo, la sua mancata e corretta attuazione, si chiama riforma del Titolo quinto. Che ha prodotto un sistema di decentramento politico e amministrativo incompleto e pasticciato; che ha generato un caos costituzionale, in termini di attuazione delle nuove norme, scatenando, tra l’altro, un enorme contenzioso. Inoltre, la mancata previsione di una seconda Camera rappresentativa degli enti territoriali ha fatto emergere ancora di più le sue criticità. Quella, infatti, sarebbe stata la sede idonea per la concertazione parlamentare riguardante provvedimenti legislativi sulle autonomie territoriali.

Sono passati più di venti anni dalla riforma del titolo quinto. Si può quindi fare un bilancio e chiedersi: è stata una buona riforma? È valsa davvero la pena approvarla? Con la riforma, si è potuto realizzare un’Italia migliore e più efficiente?

Appaiono evidenti dubbi e criticità, che qui si elencano: avere messo sullo stesso piano costituzionale lo Stato con le regioni, le province, i comuni e financo le città metropolitane (art. 114), nella illusione che potesse nascere una parità orizzontale anziché una diversificazione verticale tra enti territoriali, che sono profondamente diversi. Avere mantenuto la differenza fra Regioni ordinarie e speciali, che oggi appare obsoleta. Avere previsto la possibilità di fare diventare specialissime alcune regioni, attraverso l’attuazione dell’art. 116 e l’eventuale assegnazione di ulteriori materie legislative in capo alle Regioni. Avere confermato, all’art. 132 della Carta, la possibilità di fondere le Regioni o di crearne nuove, con il rischio di spezzettare l’unità nazionale. Avere consentito lo sconfinamento di Comuni da una regione all’altra (come è avvenuto), sparigliando storia e tradizioni locali. Avere soppresso l’impegno, voluto dal costituente, della «valorizzazione delle isole e del Mezzogiorno», con la miope illusione di risolvere, sbianchettando la Costituzione, le difficoltà insulari e la questione meridionale. Il Mezzogiorno è rimasto fuori dalla Costituzione mentre invece l’insularità è rientrata, con la recente riforma dell’art. 119. 


Possiamo chiamare federalismo tutto questo? Se guardiamo alle esperienze federali consolidate, come in Germania, possiamo senz’altro rispondere no. Il problema di oggi, che tanto fa discutere, è quello del regionalismo differenziato e l’attuazione dell’art. 116; la questione però è di ieri, ed è quella di un Titolo quinto della Costituzione, che ha chiaramente fallito il suo obiettivo. Prima di applicarlo sarebbe opportuno cambiarlo.
 

 

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Il Mattino