Per ora è solo un decreto di affidamento temporaneo. Ma è sempre giusto intervenire così, allontanando i figli da una famiglia abitata da dinamiche...
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Che ne pensa, Ammaniti?
«Intanto, esiste già un’ampia casistica a cui ci si può riferire: il decreto del Tribunale dei Minori di Napoli ricalca l’esperienza di Reggio Calabria, dove più volte bambini o ragazzi di famiglie legate alla ‘ndrangheta sono stati affidati a case-famiglia al di fuori della regione. E dagli esiti riportati in relazioni e altre documentazioni emerge ciò che il procuratore di Reggio, Cafiero de Raho, ha detto ieri in un’intervista al Mattino: quelle esperienze sono risultate largamente positive e hanno guidato i ragazzi a prendere le distanze dal mondo familiare».
A suo avviso l’allontanamento è giusto anche quando, come nella vicenda di Secondigliano, la madre risulti incensurata?
«Per rispondere alla domanda, e fare luce su questa singola storia, non posso che richiamare il principio decisivo sancito dalla Carta dei diritti dell’infanzia, nel quale si parla di priorità da dare, sempre e comunque, all’interesse superiore dei minori. In questo caso, bisogna capire se rimanere in casa con la madre potrebbe guidare i bambini verso un processo di tipo educativo non delinquenziale, cioè orientarli a scoprire le proprie vocazioni. E non mi sembra incoraggiare in tal senso il fatto che la madre abbia incontrato il marito anche durante la sua latitanza. Gomorra lo spiega in modo chiaro, la famiglia camorristica indirizza in maniera unidimensionale. Figurarsi se parliamo di due bambini piccoli. A quell’età l’affiliazione camorristica e mafiosa si determina spesso di pari passo con la tessitura dei legami affettivi ed è probabile che anche la giovane mamma di due bambini di tre o quattro anni, sebbene incensurata, sia permeata completamente da quelle logiche, trasmettendole ai figli».
Sono fin troppo raccontati i rituali e i codici familiari che rafforzano quei legami: le armi regalate fin da bambini, l’apprendistato alla violenza, le sfide tra coetanei, i riti d’iniziazione più diversi. Ma esiste un profilo psicologico di rapporto tra genitori e figli di camorra?
«Sì, e consiste nell’identificazione molto rigida, manichea, veicolata fin dall’infanzia, in un alfabeto comportamentale primitivo e violento basato sulla diade tradimento-lealtà, nemico-sodale. Ai figli si chiede, da subito, in modo esplicito o meno, la scelta di campo. E il figlio non può che decidere di stare con chi incarna la lealtà, l’amicizia. Cioè il padre, ovviamente. In una società così fortemente dominata da valori maschili, è molto difficile che le madri riescano a far filtrare un punto di vista, una possibilità diverse».
Dunque, si tratterebbe di procedere in direzione di una sorta di rieducazione al contrario: ma come?
«Il termine «rieducazione» è piuttosto forte, ma il punto è proprio questo: si dovrebbe riuscire ad opporre altri modelli di vita, con percorsi complessi legati alla scuola, al lavoro, a famiglie affidatarie affiancate da esperti. In parte, è quello che si sta tentando in varie situazioni nei casi richiamati in Calabria e anche altrove. Agire nell’interesse superiore dei minori dovrebbe significare propiziarne una crescita libera, nella speranza che questo li porti ad altre opportunità, a rompere con la dimensione criminale. Certo, alla fine, paradossalmente, potrebbero addirittura decidere di essere camorristi, ma operando una scelta, non subendo un condizionamento».
Se la mamma di due bambini in questione decidesse di prendere le distanze da quel mondo, accettando ad esempio il programma di protezione, le cose potrebbero andare diversamente?
«Immagino di sì, sarebbe questa la soluzione. Eviterebbe inoltre una sofferenza in bambini così piccoli, la lacerazione di un distacco che a tre o quattro anni può scavare solchi davvero profondi, difficili da comprendere come espediente di salvaguardia dei loro interessi. E in seguito impossibili da dimenticare o perdonare».
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Il Mattino