Nelle remote adolescenze del tempo si perde il rito, dal doppio accento, dove il Cristianesimo si accavalla al paganesimo, divenendo teatro. È quello che succede a Guardia...
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Schegge di sincretismo e passione si mischiano tra liturgia e scenografia, e l’effetto è un po’ “Brancaleone” di Mario Monicelli, un po’ “The Passion of the Christ” di Mel Gibson, con un sottofondo di Ora pro nobis e odi alla Madonna Assunta sovrastate dai «Ricomponetevi» urlati dai kapò, delle due processioni – una di Penitenza e una di Comunione – alle comparse che, spazientite, escono dai ranghi e soprattutto dai ruoli. Dopo di loro ci sono i battenti. Tutti sono lì per vederli, il resto è contorno nonostante i grandi sforzi. L’attesa lungo le strade è da Giro d’Italia, ma al posto di Vincenzo Nibali, dietro le curve, spunteranno gli incappucciati che sanguineranno, lavando le colpe, mischiando il sangue buono e quello pazzo, per scongiurare la siccità – che l’acqua piovana possa consentire il compiersi stagionale del ciclo agrario, come spiega Lombardi Satriani –. È una fabbrica di sangue e dolore, Guardia Sanframondi, anche se meno cruenta di come si immagina, sotto gli occhi triplicati – da Grande Fratello – di una marea di persone che parte in gita per toccare con mano i disciplinati figli dei figli dei figli di Raniero Fasani, che a Perugia nel maggio del 1260 diede il via al rito dell’espiazione pubblica, fornendo uno spettacolo perfetto per i telefonini di ogni ordine e grado, per le macchine da presa e le telecamerine da due dita, ottocento e fischia anni dopo.
Al realismo coatto del sangue, alla trasformazione dei battenti in sacerdoti che maneggiando il proprio dolore – colpendosi il petto con tamponi appuntiti da trentatré spilli – si aggiunge la rappresentazione della Storia, messa in fila dai quattro rioni del paese: Croce, Portella, Fontanella e Piazza. È un gioco di vita e morte, che però sfugge di mano, persino al vescovo, che si trova a recitare una omelia, mentre dietro di lui c’è un set pasoliniano, una sorta di “Heaven Academy” dove madri addestrano angeli e imperatori, e mogli accudiscono – più o meno blasfemamente – una schiera di sosia di Cristo di ogni ordine, grado e soprattutto età. Diventa difficile controllare una piazza del genere, non basta ammonire se ci si prepara alla messa in scena. Il risultato è slabbrato, fatiscente, ma con punte di commozione: almeno a guardare gli occhi delle anziane che si dispongono a rendersi testimoni dei testimonial della Bibbia e/o Storia del mondo, con correndo di battenti, disciplinati, e Madonne bambine. C’è un prima e un dopo, il prima è letteratura visuale – scritta da sceneggiatori di provincia –, e il dopo è concretismo lirico che discende dall’antico, portandosi dietro quello che sembra inutile al nostro tempo, ma con un carico poetico innegabile. L’attacco è «Con fede e coraggio, fratelli, in nome dell’Assunta battetevi!», una chiamata alla carica per i penitenti. Partono le processioni e si comincia a battersi per versare il sangue, mischiato al vino, servito da hostess e assistenti almodovariani.
La missione è raggiungere e servire la Madonna, incontrarla e ossequiarla, facendo penitenza, e poi spogliandosi – a sera – portarla in spalla di nuovo in chiesa, in una circolarità geometrica, ripercorrendo il ciclo delle cose, del mondo, della vita. A guardare i corpi dei penitenti, le loro pance prominenti, le loro mani che stringono crocefisso e tampone, le loro braccia, la loro pelle scura di sole, e le scarpe da tennis dei più giovani, i sandali di quelli più in là con gli anni, insomma, le parti che spuntano da sotto i camicioni bianchi, viene da tracciare un profilo poco borghese, a dispetto dei racconti. Chi è devoto sembra appartenere alla classe operaia, nel giochino che fanno tutti scrutando gli occhi che guardano da dietro i cappucci. Giovani e maturi si mescolano, quest’anno se ne contano ottocento che si appoggiano di autorità sul passato, sperando di darsi un futuro, usano il corpo, la carne – martirizzata – come chiave di speranza, e lo fanno in modo violentemente arcaico in mezzo a una folla indisciplinata, distratta, curiosa solo del sangue e dell’eccitazione che si porta dietro, come a un incontro di boxe, tutto il resto è scenografia. Si aspetta l’incontro, l’investitura adrenalinica. In questa catena d’assunzioni – in cielo e soprattutto in terra – ci sono cortocircuiti orwelliani, con le anziane lontane della strada che seguono in tivù il rito, aggiornando i passanti, che cercano varchi per fotografare gli incappucciati, sulle posizioni delle processioni. Intanto, in quella di Comunione, si apparecchia la Storia su un’unica linea, dove i fascisti si mescolano ai pretoriani – intuizione de “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini –, i faraoni agli schiavi, i santi ai peccatori, i soldati alle spose, in una Cinecittà in movimento. Il risultato è una congiuntura immaginativa servita per l’Homo Camera, intrattenimento prima del vero spettacolo. Finzione prima del realismo. I Misteri della fede trovano applicazione pratica, rappresentazione liquida: miracoli e apparizioni confluiscono in rivisitazioni posticce, enfatizzate, dove le facce sono giuste e i gesti sbagliati, dove mancando la lingua il mezzo diventa ancora una volta il corpo, addobbato col costume giusto in un tempo sospeso attraversa il corteo con i problemi di oggi: l’acqua, la pizza, il bimbo che piange e vuole andarsene, una cerimonia ossimorica dove si amministra la fede, in quadri, in attesa della vera dimostrazione, lo sfregio di sé in funzione comunitaria, la dimostrazione reale d’appartenenza. Il suono è ferroso, quello dei disciplinati che si percuotono le spalle con cordoni di ferro, pendagli che nel movimento di scudiscio fanno suonare l’avviso di battitura, è la preparazione al silenzio del sangue, che scava un tunnel nella distrazione collettiva, in fondo è il momento clou.
È l’esperienza delle cose che si guadagna spazio, e tra i pochi veramente toccati dal “sacrificio” dei battenti: genera preghiera, assunzione di mistero, c’è chi mormora dei grazie, chi piange in silenzio, chi prega; è questo il punto, tutto è servito per arrivare a fare di quei corpi dei mezzi di transizione, separano la vita e la morte, il crinale sul quale stiamo: atei e non.
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Il Mattino