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C’è una parola napoletana, la «ciorta», che si riferisce sia alla buona che alla cattiva sorte, proprio come la dea greca Tyche. Qualcosa, cioè, che ha a che fare con il caso e il destino (nel Rinascimento la Fortuna veniva spesso raffigurata come una donna in precario equilibrio su una barca o su un delfino, oppure calva per metà capo, a sottolineare la difficoltà di acciuffarla per i capelli).
Anche nella «ciorta» napoletana, dunque, si può individuare la radice di una concezione assai precaria - direi tragica - della vita umana. Perché ne sto parlando? Perché ogni volta che in città scatta un’allerta meteo, ecco che la «ciorta» arriva a governare le nostre vite, affidate al suo capriccio, ai suoi occhi bendati, al suo precario equilibrio sul dorso scivoloso di un delfino. È di pochi giorni fa la notizia dell’ennesima caduta di un albero a piazza Cavour che ha ferito un ragazzo in motorino (per fortuna non gravemente). Ma tutti ricordiamo la tragedia di Cristina Alongi, morta proprio per il crollo di un albero a via Tasso (quello stesso anno venne giù anche un’ala di Palazzo Guevara di Bovino, alla Riviera di Chiaia). Due anni fa la vittima è stata Davide Natale, il giovane studente di San Nicola La Strada morto per un albero crollato presso la sede del Cnr, a Fuorigrotta. E sempre a Fuorigrotta, a via Leopardi, chi scrive si è salvato lo scorso anno solo grazie a un semaforo rosso, davanti al quale ha visto cadere rovinosamente un lampione, finito sulle strisce pedonali.
E poiché nulla è stato fatto in questi anni in termini di prevenzione, di messa in sicurezza, di monitoraggio, a ogni giornata di vento o di pioggia è la «ciorta», nel suo potere impersonale, piuttosto che il buongoverno degli uomini, a decidere se il povero cittadino può tornare a casa incolume oppure no.
O come non pensare, anche, a certe grottesche e cupe atmosfere presenti nei racconti di Luigi Compagnone che compongono «Città di mare con abitanti», o alla metafora di Raffaele La Capria sulla Napoli che «ti ferisce a morte o ti addormenta»?
La ferita a morte procurata dalla città ai suoi abitanti è diventata, da allusiva che era, una realtà di tutti i giorni. Ma se la forza della letteratura è anche (o soprattutto) nella sua capacità di leggere nel profondo, di anticipare, di immaginare ciò che verrà, qui ci troviamo di fronte a un evidente paradosso. La situazione catastrofica di Napoli, con i crolli e l’incuria, il malgoverno e le eterne emergenze, ha bruciato ogni possibilità di metafora, costringendo qualsiasi discorso su e intorno alla città ad appiattirsi nella cronaca, a riprodurla, a inseguirla o - al limite - a esorcizzarla. Ma una città che non è più capace di produrre metafore, nemmeno quelle più apocalittiche, perché le ha già realizzate tutte, è una città che ha annullato di fatto lo spazio tra realtà e immaginario, e dunque ha annullato anche la possibilità di concepire una realtà alternativa, un mondo diverso oltre la fine del mondo. È una città, in definitiva, a cui non resta che affidarsi alla sua «ciorta»: inaspettata, incalcolabile e imprevedibile.
Il Mattino