È finito dunque questo campionato farlocco, il più farlocco della storia del calcio: farlocco lo scudetto a quota 83 punti. È la quota più bassa tra...
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Ma adesso che è finito sì che ne possiamo parlare, finalmente con distacco e con la proverbiale lucidità dei tifosi, e finalmente lo possiamo dire che nella fatica della risalita, nelle curve di una gimkana nella quale abbiamo rischiato di farci molto male una certezza l’abbiamo maturata, un’ancora sicura alla quale aggrapparci l’abbiamo trovata, e non era facile, non era scontato. In Gennaro Gattuso detto Rino, e da sabato sera anche il Terrone, abbiamo trovato tutto: il veleno, l’anima e l’interruttore, per dirla con il vocabolario tutto suo, con quel suo glossario motivazionale che da solo spiega l’entità e i confini della metamorfosi cui abbiamo assistito. Perché sì, l’anima c’è in questa squadra capace di passare dall’incubo retrocessione alla conquista di un trofeo e del terzo posto virtuale del campionato post-covid, l’anima c’è al di là degli sbandamenti, che ci sono e vanno corretti, e che tuttavia è davvero eccessivo stigmatizzare ragionando di sconfitte incassate a 35 gradi, giocando ogni tre giorni e con un posto in Europa già in saccoccia. L’anima c’è ed è quella che noi napoletani amiamo, l’anima che spinge il capitano Insigne a cedere la sua fascia a Josè Maria Callejon nella sua ultima partita in Serie A, l’anima che lo fa piangere, il nostro Lorenzo, quando per l’infortunio deve lasciare il campo e (speriamo di no) il sogno di giocare a Barcellona.
L’anima c’è, e non si parli di pagina nera, di macchia sul campionato e altre inutili banalità, quando negli ultimi minuti dell’ultima partita del campionato più farlocco della storia gli animi si surriscaldano, gli sguardi truci si incrociano, vola qualche spintone. Perché è umano, perché è addirittura salutare arrabbiarsi - nei limiti in cui la rabbia si è manifestata sabato sera al San Paolo - se uno scontro di gioco si fa troppo fisico, se la pressione dell’avversario in cerca del risultato perduto rischia di travalicare i confini della sportività. Ed è anima anche il ringhio dell’omonimo allenatore che scatta quando si sente insultato: perché sì, terrone di m. è un insulto insopportabile, l’insulto più becero che si può rivolgere a uno che terrone lo è davvero, ed orgogliosamente. Chiamateci pure terroni, che è il nostro marchio di fabbrica, la definizione della nostra insopprimibile personalità, l’etichetta stampata sopra la nostra anima, appunto: ma la m. tenetevela per voi, e ci provi finalmente la Lega Calcio, o chi altri può e deve, a punire certo becerume, a buttare fuori dagli stadi chi ancora sporca il pallone col razzismo.
Grande Ringhio, terrone del nostro riscatto. Ora andiamo a Barcellona, o dove la fuga dal Covid ci porterà, e andiamoci come una squadra vera, compatta, la squadra con l’anima che sapevamo di avere e che nel nome di un calcio ineffabilmente liquido avevamo rischiato di perdere. Andiamoci con l’interruttore alzato, quello delle grandi occasioni, quello che, come ogni tanto fa il salvavita, a San Siro era scattato, facendo suonare l’allarme. Ma a San Siro non c’era in palio niente, qui possiamo fare la storia. Noi, un pugno di calciatori tornati definitivamente allo stato solido, l’allenatore Terrone - quello del ringhio e del veleno, l’uomo giusto al momento giusto. E un’anima incollata alla maglia azzurra. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino