Napoli, gufi vade retro: noi primi e imbattuti

Napoli, gufi vade retro: noi primi e imbattuti
Imbattuti. Dodici partite di cui la metà in trasferta, svariate insidie, molti imprevisti e qualche pesante svista arbitrale. Eppure imbattuti. Se sulla carta stampata non...

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Imbattuti. Dodici partite di cui la metà in trasferta, svariate insidie, molti imprevisti e qualche pesante svista arbitrale. Eppure imbattuti. Se sulla carta stampata non risultasse inelegante lo scriveremmo a caratteri cubitali, ci limitiamo a ribadirlo un’altra volta: imbattuti, cioè mai sconfitti, mai usciti da un campo a mani vuote. No, neanche domenica scorsa, casomai qualcuno non se ne fosse accorto: è un’ovvietà ma bisogna insistere, forse abbiamo perso due punti ma uno ce lo siamo portati a casa e siamo ancora primi in classifica, e quindi basta, smettiamola di farci male da soli. Spegniamola subito questa macchina della depressione partita ormai da 48 ore, tutti tristi delusi arrabbiati e, quel che è peggio, subito disfattisti. Processo a Insigne che non segna più se non su rigore, processo a Zielinski che promette e non mantiene, processo a Spalletti perché ha sbagliato i cambi. Eddai. 

Nessuna squadra, neanche il Barcellona dei tempi d’oro o il Psg degli sceicchi, può vincerle tutte. A nessun allenatore, neanche al mitico Guardiola o alla premiata ditta Ancelotti, non è capitato o non capiterà mai di sbagliare un cambio, l’interpretazione di una gara. È un fatto statistico, succede. E poi, diciamolo: ma chi ci avrebbe creduto, a settembre, che a questo punto della stagione ci saremmo trovati in questa specie di inebriante empireo? Primi in campionato, primi nel girone di Europa League, che pure è un risultato che dà le sue soddisfazioni, anche se sono fin troppi i (sedicenti) tifosi napoletani che ne farebbero tranquillamente a meno, giudicando la competizione internazionale una distrazione inutile e persino controproducente (altro errore: una grande squadra è quella che dalla pluralità di competizioni trae vigore, impara, si esalta; una grande tifoseria è quella che non si accontenta, non rinuncia, si appassiona). Chi l’avrebbe mai immaginato, ad agosto mentre ci angosciavamo intorno al calciomercato più rinunciatario della storia del Napoli, che tre mesi dopo ci saremmo ritrovati a rivivere l’antica, indimenticata rivalità che ci opponeva al Milan nelle stagioni degli scudetti targati Maradona?

Bisogna osare nella vita se si vuole davvero qualcosa, e il Napoli sta osando, su tutti i fronti, a volte anche oltre i propri limiti. Osano pure i tifosi, o meglio sognano, perciò si capisce che l’urlo strozzato in gola per la mancata vittoria di domenica un po’ faccia male. Proprio perché tre mesi fa nulla faceva presagire questo avvio trionfale, ora che ci siamo vorremmo non scendere mai dalla fantastica giostra delle vittorie. Ma come diceva la canzone non sempre si può vincere, e a guardar bene è già una bella fortuna che nel calcio l’opposto di vincere non sia per forza perdere.

La verità è che un pareggio contro il Verona non fermerà questa avventura, perché il Verona non è quello del pareggio di un anno fa, è una squadra organizzata e segaligna, e neanche il Napoli è più la stessa squadra di quella infausta domenica di maggio, quando si arrese senza neanche provare a combattere. Mettiamola così, bisognava pagarlo questo pegno, chiudere il cerchio e certo sarebbe stato bello, a sei mesi di distanza, prenderci la rivincita battendo la Giulietta contro cui si infranse il sogno della partecipazione alla Champions, ma a maggio non fu di Giulietta la colpa, e in realtà la rivincita bisogna che il Napoli se la prenda contro se stesso: cosa che, sinceramente, non si può negare che faccia.

Partita dopo partita, avversario dopo avversario siamo sempre noi la squadra da battere, e finora nessuno ci è riuscito, non in campionato almeno (lo smacco subìto dallo Spartak Mosca è un incidente che grida vendetta e dovrà essere vendicato). Non ci hanno battuto le più blasonate e neanche le provinciali, nostre proverbiali bestie nere, non ci hanno battuto a casa loro e neanche al Maradona, non con i loro stadi pieni di tifosi né a casa nostra, dove pure del nostro famoso invidiatissimo (dalle altre squadre) tredicesimo uomo finora si è vista solo una pallida ombra.

Prima o poi succederà, perché è statistica anche questa, prima o poi usciremo da uno stadio a mani vuote, checché a testa alta, secondo lo schema cui anni di consuetudine ci hanno (ahinoi) rodati. Speriamo solo che non accada per decisione del famoso Palazzo, entità poco misteriosa e di certo incombente, già abbondantemente evocata via social per quelle strane valutazioni intorno a falli che se commessi dai nostri vengono sanzionati (Koulibaly espulso per aver tirato la maglietta all’avversario) mentre se sono gli altri a metterli in atto (maglietta tirata ad Oshimen che va giù in area di rigore) non valgono neanche una riguardata al Var. Ci mancano un paio di rigori, le espulsioni in extremis dei due veronesi sono servite solo a spezzare il gioco e sprecare tempo neanche poi recuperato, e così via: tutto giusto e vero, ma tutto destinato a diventare inconcludente chiacchiera da bar di fronte alla straordinaria esibizione di aleatorietà data dal dio del calcio neanche due ore dopo, quando l’Inter di rigori ne ha guadagnati due e ne ha sbagliato uno, e i continui capovolgimenti di fronte, i gol fermati sulla porta a portiere battuto, il vano arrembaggio finale del Milan, niente di tutto questo è valso a sbloccare il risultato dal pareggio, ed il pareggio ha finito per avvantaggiare noi. Un buon segno, dopotutto. Il segno che ci serve per andare a Milano con il sorriso di chi sa che sono gli altri quelli che hanno più da perdere. Perdere, che brutta parola. Ma chi se ne importa, è una parola da disfattisti. E invece ricordiamocelo: noi siamo, orgogliosamente, gli imbattuti.
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Il Mattino